Triora, il processo alle streghe dell’Appennino Ligure

1587, nel Vecchio Continente infiamma la feroce caccia alle streghe e in una piccola cittadina del Ponente Ligure da circa tre anni ci sono difficoltà nella raccolta del grano. A Triora, il granaio della Repubblica, il popolo è preoccupato e scontento. La pioggia non arriva e secondo una vecchia superstizione sarebbe prova di un sortilegio lanciato sulla comunità.

Comincia così la storia di uno dei processi per stregoneria più grandi e sanguinari della storia d’Italia.

L’inzio del processo

Venti furono le prime donne denunciate dai concittadini alle autorità pubbliche e religiose.

Il Potestà di Triora, Stefano Carrega, mise in moto la macchina dell’inquisizione. Il Doge di Genova e il Vescovo di Albenga procedettero all’invio degli inquisitori. Arrivò allora Girolamo del Pozzo. A lui i trioresi riversarono accuse fantasiose e infamanti contro le venti prigioniere. Le donne avrebbero provocato tempeste e carestie, oltre alla morte di donne gravide, bambini e bestiame. L’accusa poi di compiere empietà con il demonio fu il coronamento di un’azione diffamatoria diffusa.

Triora
Foto di repertorio del Comune di Triora

Per l’inquisitore fu sufficiente. Il processo ebbe inizio.

Le donne furono crudelmente torturate e le infinite sofferenze sorbirono l’effetto desiderato: confessione.

Isotta fu la prima a morire, aveva 60 anni e non resse al dolore. La seconda fu una giovane, che tentando di fuggire ai suoi aguzzini, precipitò da una finestra.

Nel frattempo, il numero delle imputate crebbe esponenzialmente, arrivò presto a superare i duecento nomi.

Le torture

La ferocia delle torture destò preoccupazione persino nel Doge, che rivoltosi all’inquisitore, chiese ragguaglio sul suo operato. La risposta fu spiazzante. Girolamo del Pozzo giustificò i due decessi, adducendo come motivazione il chiaro legame con il diavolo. Diede conto anche della durezza delle torture. Le imputate, a detta dell’uomo, ne uscivano sulle proprie gambe, sorrette dalla forza del legame demoniaco e dunque, anche questa volta, della loro colpevolezza. Gli arresti però erano ufficialmente terminati. Anche il Vescovo, preoccupato per le conseguenze di questa ferocia, intervenne, intimando all’inquisitore di rilasciare le imputate di rango più elevato, per non avere problemi con le loro famiglie. Non fu abbastanza. I supplizi continuarono, come la prigionia per le superstiti.

Triora
Foto di repertorio del Comune di Triora

Fu mandato allora dalla città Giulio Scrivani, un commissario civico, al fine di riprendere le indagini e gli interrogatori. Morirono altre donne sotto le sue mani e altre ancora furono messe sotto accusa, fra le abitanti di Andana e Montalto.

Il processo fu poi improvvisamente trasferito in città, a Genova, dove diciannove, fra donne, bambine, bambini e uomini vennero rinchiusi nella Torre Grimaldina. Dopo di loro anche gli altri accusati furono trasferiti.

Il processo terminò nel 1588, con la condanna al rogo per tutti i reclusi.

La storia per le povere anime rassegnate ad ardere vive però non finì con la morte, non a Genova. Nel 1589 infatti venne istaurato un ulteriore processo, durante il quale fu chiesta la revisione della condanna e successivamente annullata. Non sono note le motivazioni dietro a questa decisione, si sa solo che tutti gli imprigionati furono trasferiti a Roma e lì si perdono le loro tracce.

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