Vincenzo Peruggia, l’uomo che rubò la Gioconda
Agli albori del XX secolo un fatto di cronaca scosse l’opinione pubblica dell’Europa intera. Intrufolatosi nel Louvre il giovane Vincenzo Peruggia si impossessò della preziosa Gioconda, finendo al centro di uno dei processi più chiacchierati di tutti i tempi.
Nato a Dumenza, nei pressi di Varese, nell’ottobre del 1881, Vincenzo Pietro Peruggia cominciò sin dalla tenera età a professare il mestiere di imbianchino e verniciatore. Nel 1897 si trasferì a Lione con il padre, in cerca di lavoro. Pochi anni dopo, nel 1901, a causa di una costituzione gracile, venne riformato dal servizio militare e nel 1907 giunse a Parigi in cerca di fortuna.
Il suo fisico, già molto debole, subì un duro colpo quando l’uomo, poco più che trentenne, si ammalò di saturnismo. La patologia, sviluppata in seguito ad una severa intossicazione da piombo, fu probabilmente provocata dal contatto costante con le vernici.
In quello stesso periodo giunse per Peruggia una grande svolta. Egli venne assunto dalla ditta Gobier, impegnata in alcuni imponenti lavori al museo del Louvre. Vincenzo, con altri operai, si sarebbe occupato della ripulitura delle tele e della loro copertura con lastre di cristallo. Quella fu l’occasione per elaborare il piano che lo avrebbe condotto alla celebrità.
Il furto
La mattina di lunedì 21 agosto 1911, giorno di chiusura del museo, Peruggia si introdusse nelle ampie sale, attraverso la porta Jean Goujon, dalla quale frequentemente entravano gli operai. Con sicurezza si diresse verso il Salon Carré, nel quale era esposto il prezioso dipinto leonardiano. Staccò rapidamente l’oggetto dalla parete e lo liberò da vetro e cornice, in seguito lo avvolse nella giacca. Sorprendentemente riuscì ad uscire dalla struttura senza essere notato e, stringendo a sé l’inestimabile tesoro, tornò a casa, in rue de l’Hopital Saint-Loius.
Dopo l’abile furto Vincenzo tornò al lavoro, giustificando il ritardo con i postumi dell’eccessivo consumo di alcol della sera precedente.
Il dipinto, ormai custodito a casa del Peruggia, fu affidato ad un compatriota, Vincenzo Lancelotti, a causa della forte umidità presente nella struttura.
Le indagini
L’assenza della tela fu notata soltanto il giorno successivo da due artisti, Louis Béroud e Frederic Languillerme, giunti al Louvre per ammirarne la splendida collezione. Accortisi della tela mancante allertarono immediatamente monsieur Poupardin, il capo della sicurezza, che corse dal direttore della galleria monsieur Homolle. Al Louvre, poi, vista la gravità della situazione giunsero il sottosegretario di Stato alle Belle Arti, il prefetto di Parigi e il capo della polizia.
Le indagini scattarono tempestivamente. Ogni visitatore venne perquisito e la struttura battuta a tappeto, ma del dipinto furono rinvenuti solo vetro e cornice sulle scale della sala dei Sept Mètres. I gendarmi, poi, notando che la porta a vetri era sfondata, consapevoli di quanto essa fosse utilizzata dagli operai, restrinsero il campo ai soli lavoratori.
Nel corso degli interrogatori, ai quali furono sottoposti i dipendenti, venne rilasciato un appello ai cittadini, con una esplicita richiesta di collaborazione. Allo stesso tempo l’associazione Amici del Louvre annunciò una lauta ricompensa per chiunque avesse contribuito a fornire prove per la risoluzione del caso.
A finire nei guai, con il sospetto di complicità, furono persino Guillaume Apollinaire e Pablo Picasso, che anni dopo sarebbero divenuti celeberrimi artisti.
Le indagini, nel frattempo, non erano giunte ad alcun valido risultato. La polizia, quindi, decise di concentrare le attenzioni su muratori, decoratori e personale assunto a breve termine. Venne interrogato, in quell’occasione, anche Peruggia, la cui dimora fu oggetto di attenta ispezione, senza che tuttavia fosse trovato alcunché.
Vincenzo, ormai libero, fece ritorno in Italia, a Dumenza, portando con sé la refurtiva.
La cattura
Molti anni dopo, nel 1913, l’astuto ladro ebbe occasione di leggere l’annuncio pubblicato dal collezionista fiorentino Alfredo Geri. L’uomo, deciso ad organizzare una prestigiosa mostra, chiedeva a chiunque lo desiderasse, di prestare opere d’arte. Il Peruggia, dunque, decise di inviare una lettera da Parigi, proponendo di consegnare la Gioconda, purché essa tornasse in Italia. La missiva portava la firma di un immaginario monsieur Léonard V. Geri stette al gioco e chiese al suo misterioso interlocutore di poter visionare il dipinto. L’incontro avvenne in un albergo fiorentino l’11 dicembre dello stesso anno. L’esperto, visto e riconosciuto il quadro, lo prese in custodia dalle mani dell’allora proprietario, e denunciò l’accaduto alle autorità. Il Peruggia fu raggiunto il giorno seguente dai carabinieri, che lo trassero in arresto.
Il processo
L’anno successivo, fra il 4 e il 5 giugno, si tenne il celebre processo nel tribunale di Firenze.

La folla, giunta in massa di fronte all’aula, sostenne con forza l’imputato, mossa da una profonda empatia patriottica. Il Peruggia, infatti, dichiarò sempre di aver compiuto il gesto esclusivamente per amore di patria. Egli aveva letto, anni prima, che Napoleone, nella sua discesa italiana, avesse trafugato centinaia di opere d’arte, portandole con sé a Parigi. Vincenzo, pervaso da un sentimento di vendetta, giurò che ne avrebbe riportata almeno una in patria. Scelse la Gioconda a causa delle dimensioni ridotte, non considerando tuttavia che essa non fece mai parte del bottino napoleonico.
All’accusato, in sede processuale, fu concessa l’infermità mentale, confermata dal perito del tribunale, Paolo Amaldi. Peruggia avrebbe dovuto scontare solo un anno e quindici giorni di reclusione. La pena, poi, fu abbreviata a sette mesi e otto giorni, ma subito dopo l’uomo fu scarcerato.
Il dipinto rimase per lungo tempo in Italia, dapprima nelle sale degli Uffizi di Firenze, poi in quelle di Palazzo Farnese a Roma e successivamente nella splendida Galleria Borghese, salvo tornare poi in Francia.
Peruggia morì libero, nell’ottobre del 1925, a soli 44 anni e venne sepolto a Saint-Maur-des-Fossés