Le Olimpiadi nell’antichità
Le origini
Nell’anno in cui tutti gli atleti del mondo sono impegnati nelle varie discipline, per raggiungere il sogno di Olimpia ed essere ammessi a partecipare alle gare della XXXIII Olimpiade di Parigi 2024, ripercorriamo quello che erano le Olimpiadi nell’Antichità. Il sogno che spinse Charles Pierre Frédy barone di Coubertin a far rinascere i Giochi Olimpici, riuscendoci nel 1896 con la I Olimpiade moderna di Atene.
Secondo una delle tante leggende fu Eracle in persona, l’Ercole dei romani, a fondare i giochi sacri di Olimpia in onore del padre Zeus, tra i quali si dice che gareggiassero addirittura Apollo ed Ares. Caduti poi in un lungo oblio vennero istituiti ufficialmente nel 776 a.C. Pare da tre re di città dell’Elide, per creare un momento di pace. Re Ifito, Re Licurgo di Sparta e Re Cleostene di Pisa inaugurarono i nuovi giochi, sulla scorta delle gare che furono in quegli stessi luoghi sacri fatti dal grande Eracle.
Il “format” di Olimpia era ben collaudato e prevedeva la famosa “tregua olimpica” nel mese anteriore alle gare, una settimana di giochi che si chiudeva poi l’ultimo giorno con le premiazioni di tutti gli atleti. Questo format perdurò per ben 292 edizioni, fino al 393 d.C. quando l’Imperatore Teodosio non le bandì per i ripetuti riti pagani che aprivano e chiudevano le gare.
La pace in guerra
Vale la pena spendere due parole sul concetto di “tregua olimpica” perché seppur con le debite proporzioni anche nelle ultime edizioni moderne è successo qualcosa di simile (gli atleti delle due Coree che per esempio hanno gareggiato tutti sotto la stessa bandiera) con addirittura una dichiarazione mondiale da parte del CIO dal 2000 in cui si parla di tregua olimpica, tuttavia quasi sempre disattesa.
Le polis greche, per quanto grandi o piccole che fossero, erano sempre in competizione tra loro anche solo per un rado pascolo per il poco bestiame che avevano o per qualche ettaro di terra in più da coltivare che in una terra brulla e arida era comunque rilevante. Ebbene da quando vennero istituiti i giochi ogni conflitto, ogni disputa tra le polis greche doveva cessare e i vari re, politici e funzionari dovevano necessariamente firmare una tregua che durava il tempo necessario che serviva agli atleti e agli spettatori di tutto il mondo ellenico a raggiungere Olimpia, disputare le gare e tornare a casa. Era compito dei tedofori che partivano da Olimpia con la torcia e il fuoco sacro annunciare la tregua e l’imminente avvicinarsi dei giochi in onore di Zeus.
Le gare
La settimana di gare incominciava con un primo giorno dedicato a riti religiosi, sacrifici agli dei e cerimonie di presentazione degli atleti, un po’ come la cerimonia d’apertura dei Giochi Moderni, mentre l’ultimo giorno vi erano le premiazioni dei vincitori con corone d’alloro e i diversi banchetti in loro onore. Dal secondo al quinto giorno si concentrano le gare di diverse discipline, e c’erano perfino tre gare dedicate ai giovani, diremmo noi oggi Under 18.
Pare che vi fosse un ordine ben preciso con cui le gare venivano disputate e molti autori antichi ci narrano le vicende di grandi atleti dell’antichità Acante di Sparta, Filippo di Crotone, Cilone di Atene, Eurimene di Samo fino addirittura all’Imperatore Nerone che vinse una corsa dei carri in maniera del tutto falsata dato che l’Imperatore cadde e gli altri aurighi per evitare ripercussioni si fermarono, aspettarono che Nerone riprendesse la gara e tutti si fecero superare per farlo vincere.
Lo scalpitio degli zoccoli
E proprio con la corsa dei carri si aprivano i giochi, bighe e quadrighe si fronteggiavano sulla distanza, sembra, di 12 giri dell’ippodromo con dei veri e propri aurighi professionisti, che faranno anche la loro comparsa nei grandi circhi romani, dal Circo Massimo a Costantinopoli. Nello stesso giorno si disputavano le corse dei cavalli, con tanto di fantini ingaggiati dalle varie città affinché portassero la palma della vittoria nelle loro agorà.
Uomini in gioco
Il terzo giorno ipotizziamo gli atleti cimentarsi nel famoso pentathlon ovvero le cinque gare che ogni singolo atleta doveva affrontare: il lancio del disco, il lancio del giavellotto, la corsa piana di circa 200 metri, il salto in lungo e la lotta. Naturalmente i materiali che utilizzavano nelle Olimpiadi antiche era molto differente da quelli usati oggi. Un disco poteva pesare il doppio se non il triplo di quelli moderni, così come anche i giavellotti che nel resto dell’anno veniva utilizzato come arma da caccia o da guerra anche.
Nel quarto giorno di gare ecco la regina dell’atletica, ovvero la corsa che, anche nelle Olimpiadi antiche, aveva diverse distanze e specialità; la gara di velocità per eccellenza era lo stadion, una corsa su un rettilineo di 192,28 metri, proprio come quella praticata nel pentathlon. La seconda gara il diaulos era esattamente il doppio dello stadion, ovvero circa 380 metri. Poi vi erano le corse di resistenza; il dolichos che si disputava su una distanza di quasi 5000 metri e, nelle edizioni successive dei Giochi l’hoplitodromos, per atleti che erano anche guerrieri poiché si trattava di corsa con le armi e con lo scudo.
Il quinto giorno le gare più dure e fisiche di tutte, le gare di combattimento, del pugilato, la lotta ed il pancrazio. Le fonti antiche ci dicono quanto era popolare il pugilato. Usato dai greci spesso in tornei per commemorare i caduti, come ci racconta Omero nell’Iliade sul ricordo per Patroclo. Come in tutte le altre gare delle Olimpiadi gli atleti gareggiavano nudi; coloro che praticavano pugilato indossavano dei sandali e delle fascette di cuoio da tenere ai polsi, bracci e avambracci.
La disciplina più crudele
Il Pancrazio invece era la cosiddetta lotta senza regole, o almeno pochissime perché le uniche pratiche non consentite erano mordere, colpire i genitale o accecare. Per il resto tutto era concesso. La dimostrazione di forza e potenza era puro spettacolo per i tifosi che assiepavano i bordi dello stadio di Olimpia. Ed in effetti non esistevano delle riprese. Ma bensì lo scopo finale del pancrazio era rendere inoffensivo l’avversario. Stordirlo, sottometterlo e qualora in qualche gara ci scappasse il morto nessun atleta era punibile. Il mito ci racconta che uno sport del genere potrebbe essere stato inventato da Teseo. Il quale aveva disposto due uomini seduti uno di fronte all’altro. Gli atleti si dovevano colpire con pugni violenti, fino a che uno dei due non crollava, impossibilitato a muoversi o peggio addirittura morto.
In conclusione possiamo dire che la celeberrima frase (che erroneamente viene attribuita a Charles Pierre Frédy barone di Coubertin), per i greci non aveva alcun valore. Era anzi era esattamente il contrario. Gli atleti prima delle gare pregavano Zeus affinché egli desse loro la forza, forza per vincere o morire!