Alatri e le sue bellezze. La lunga storia del protocenobio di San Sebastiano
Fra le colline a confine fra Lazio e Abruzzo sorge una città che raccoglie in sé opere di grande bellezza. Nota principalmente per le maestose mura megalitiche e l’acropoli preromana, custodisce un patrimonio culturale e architettonico di assoluto valore. Una testimonianza è costituita dal protocenobio di San Sebastiano, risalente alla tarda antichità.
La badia nacque per volere del Prefetto delle Gallie, un patrizio romano di nome Liberio, che prestò servizio sotto il re Teodorico come diacono. Egli volle che fosse realizzato un edificio religioso sulle rovine di una sua villa di campagna, a poca distanza dalla sorgente di Silvidè. Ne decise persino il primo rettore, affidandola all’abate Servando.
Il soggiorno di San Benedetto
L’abate, lodato al tempo per la sua vita austera, fu amico di Benedetto da Norcia, conosciuto durante il soggiorno del santo a Cassino. Benedetto, infatti, in viaggio con i due discepoli Placido e Mauro, si fermò nell’abbazia, nel 528. Si ipotizza che proprio qui possa aver tratto spunto dalla regola vigente, ispirata sia ai dettami di Sant’Agostino che a quelli appresi dall’abate in Palestina. L’influenza fu talmente radicale che la stessa abbazia, pochi anni dopo, finì per seguire gli insegnamenti benedettini.
Dall’ospite l’abate ricevette, in sego di riconoscenza, una campanella, ancora oggi conservata presso il monastero delle benedettine di Alatri.
Di quel periodo non rimangono che alcune strutture, di cui, tuttavia, fa parte un’interessante tomba di VI secolo. Si tratta della deposizione di due monaci, che potrebbero essere identificati come l’abate Servando e il suo successore.
Una storia complessa
La storia della badia si snoda nei secoli attraverso abbandoni e cambi di potere. Dopo un primo momento di dismissione la struttura cadde sotto il controllo delle monache dell’ordine Damianite di Santa Chiara, nel 1223, per le quali fu eseguita una ristrutturazione comprensiva di ampliamento. A loro sono dovute alcune delle opere di più elevato prestigio artistico conservate nell’edificio. Le monache mantennero le proprietà per circa due secoli, fino a quando, nel 1442, papa Eugenio IV ne decretò la soppressione e la concesse, compresi i suoi immensi territori, ad un gruppo di sacerdoti, stabilendone anche l’abate.
La situazione rimase stabile per appena qualche anno, nel 1450, infatti, il neoeletto pontefice Innocenzo X attribuì l’abbazia alla chiesa di Sant’Agnese in Agone a Roma, in veste di patronato. La chiesa era stata edificata per volere dello stesso pontefice, che vi aveva fatto includere una splendida cappella privata per la sua famiglia d’origine, i Doria Pamphili. Proprio questi ultimi riuscirono così ad appropriarsi dell’abbazia alatrense e ne mantennero il controllo per molti secoli. Solo nel 1853 uno degli eredi, il principe Andrea, ne concesse i beni in enfiteusi a Salvatore Vienna e ai suoi successori fino alla terza generazione, per linea maschile. Essi ne divennero proprietari nel 1908, alla morte del Vienna.
Attualmente la struttura risulta divisa in tre sezioni, di cui una appartenuta persino al cugino di Winston Churchill, Sir John Leslie. Le sue linee ricordano ancora le vestigia medievali e all’interno sono custodite opere artistiche di grande pregio, fra le quali spiccano alcuni affreschi di scuola umbro-laziale, di XII e XIII d.C., raffiguranti la vita di Cristo e della Madonna.
Il protocenobio continua, con la sua bellezza, ad affascinare frotte di visitatori, tanto da divenire persino un set cinematografico. Il regista Jordan River ha, infatti, scelto proprio questo scenario come ambientazione per alcune riprese del suo nuovo film, Il Monaco che vinse l’Apocalisse, ispirato alla vita del teologo Gioacchino da Fiore.