Femina accabadora, l’angelo della morte della Sardegna

Fra i boschi e le grandi distese riarse dal Sole della Sardegna si celano miti e leggende che hanno invaso l’immaginario collettivo per secoli. Una delle figure più affascinanti e misteriose di queste storie affonda le radici nella notte dei tempi.


Il rito

La femina accabadora, entità sospesa fra mito e realtà, era colei che portava morte a uomini e donne che anelassero l’eterno riposo, dopo una dolorosa malattia. L’accabadora, secondo le leggende, sarebbe stata una vera e propria esecutrice, incaricata dai parenti della vittima. Il suo compito era porre fine alle sofferenze dei malati, attraverso la dolce morte. Si trattava, dunque, di una sorta di eutanasia, per la quale la donna non solo non percepiva denaro, ma non era neppure considerata alla stregua di un’assassina e spesso ricompensata con i prodotti dei campi. Ella agiva secondo una prassi definita, introducendosi nella dimora della vittima con il favore delle tenebre, silenziosa e ammantata di nero, per porre fine alla sua vita.

La ritualità era complessa. La femina, innanzitutto, si sedeva al capezzale della vittima, recitando un rosario e alcune litanie, dette is brebus, la quale consuetudine ricorda quella dell’estrema unzione cristiana. Terminata la “preghiera” la donna toglieva la vita al moribondo, in vari modi. Poteva soffocarlo utilizzando un cuscino e premendoglielo con forza e decisione sul volto, o percuoterlo letalmente con il tipico bastone in legno d’olivo, chiamato su matzolu, oppure, talvolta, strangolarlo.

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Una realtà complessa

Secondo alcuni studiosi al rito era legato anche l’uso di un giogo in miniatura, da nascondere sotto il cuscino del malato, per comprendere se egli si fosse macchiato in vita di una colpa vergognosa, tale da bloccare l’uscita dello spirito dal corpo. Il distacco, nel caso di colpevolezza, sarebbe stato favorito proprio dalla vicinanza dell’oggetto, simbolo della sfera alla quale si riferiva il peccato. I crimini erano strettamente legati al mondo contadino; si trattava, infatti, di delitti legati al mancato rispetto della proprietà altrui o persino alla soppressione di animali domestici.

A completamento della procedura compiuta dall’accabadora, frequentemente, la stanza della vittima veniva privata di qualsiasi immagine sacra e di tutti gli oggetti che potessero essere cari al suo spirito, per favorirne il trapasso.

Le storie di cui la terribile figura è protagonista sono molto comuni in tutta l’isola e trarrebbero forza da alcune vicende reali. L’esistenza storica di una figura che possa sovrapporsi alla femina accabadora è incerta, ma è nota la presenza, nei villaggi, di donne che portassero conforto alle famiglie dei moribondi. Il loro compito era accompagnare il malato fino all’ultimo istante di vita e sostenere i congiunti nel dolore della perdita.

L’accabadora deriverebbe dalla tradizione, tutta sarda, dei racconti sos contos de forredda (intorno al focolare). Le storie, fantastiche, raccontate intorno al fuoco evocavano scenari affascinanti e spaventosi, che riuscivano facilmente a fare breccia nella coscienza popolare.

Le sue ultime apparizioni sarebbero avvenute in un passato relativamente recente. Si narra, infatti, che la donna sia tornata a svolgere il suo amaro compito ben tre volte nel secolo scorso, a partire dalla fine degli anni ’20.

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Gli studi

Molti sono stati gli antropologi a cimentarsi nello studio di questa complessa figura, fra loro anche lo studioso sardo Francesco Alziator. Quest’ultimo ha contribuito, con le sue ricerche, a donare un volto più sfaccettato alla terrificante femina accabadora. Secondo l’Alziator, infatti, non si tratterebbe di un’omicida armata di oggetti inquietanti, ma piuttosto di una donna con il compito di accompagnare, serenamente, il moribondo alla conclusione della sua vita, favorendo il distacco dal corpo dell’anima sofferente.

I riti officiati dall’affascinante, ma allo stesso tempo spaventoso, personaggio sarebbero, a detta dell’antropologo ben più complessi e numerosi di ciò che è rimasto nella memoria narrativa popolare. Anche in tal caso appare inesorabile la mancanza di notizie che possano uscire dal campo della leggenda. Un silenzio che si estende anche al ruolo della Chiesa, grande assente durante tutto il corso di questa mistica storia di folklore. Apparentemente non ne sarebbero stati a conoscenza neppure i parroci locali, cosa non plausibile, qualora si fosse trattato di pratiche reali, visto il controllo e il ruolo delle autorità religiose sul territorio. Altrettanto non plausibile sarebbe la mancanza di denunce ufficiali, quantomeno alle autorità ecclesiastiche ai danni di tali pratiche, perlopiù violente.

La tradizione dell’accabadora troverebbe eco anche in leggende di altre regioni. La figura sembra diffusa in ambito mediterraneo. L’eutanasia simbolica, infatti, appare anche in Puglia. Nell’opera di Saverio La Sorsa sulle tradizioni popolari pugliesi è descritto un rito, comune in Salento, per alleviare le sofferenze del morente che avesse, in vita, “violato un termine o bruciato un giogo”.

Attualmente la memoria del complesso mondo della femina accabadora è affidata alle sale di un affascinante museo etnografico, nel cuore della Gallura, a Galluras a Luras.