Lidia Poët, la prima donna avvocato in Italia
Ci sono donne che sono riuscite a cambiare il corso della Storia; donne che hanno sfidato gli schemi sociali della loro epoca per conquistare una libertà rara in alcuni ambiti lavorativi e famigliari. Una di queste è sicuramente Lidia Poët, il primo avvocato donna nella storia e dalla cui biografia è stata tratta una nota serie tv.
Lidia Poët, la prima donna avvocato in Italia
Lidia nasce ina famiglia benestante in provincia di Torino, a Perrero, dove trascorre i primi anni della sua infanzia; infatti, quando era un’adolescente, la famiglia si sposta a Pinerolo, dove già abitava il fratello maggiore. I genitori la iscrivono presso il Collegio delle signorine di Bonneville, un collegio svizzero ad Aubonne sul lago Lemano. Dopo aver conseguito la licenza da maestra nel 1871, torna a Pinerolo dove, grazie all’aiuto dei fratelli, poiché ormai i genitori erano morti entrambi, s’iscrive al Liceo Giovanni Battista di Mondovì. Dopo aver conseguito il diploma superiore, s’iscrive alla Facoltà di giurisprudenza di Torino e si laurea il 17 giugno del 1881. La passione per la “questione femminile” era già insita in Lidia che aveva a cuore la parità di genere, tanto che la sua tesi fu sulla condizione femminile e sul diritto di voto alle donne.

Proseguì la sua formazione presso lo studio legale del senatore Cesare Bertea, dove riuscì a terminare il praticantato. Superato l’esame da avvocato, chiese, com’è ovvio, l’iscrizione all’ordine degli avvocati del Piemonte. La sua richiesta però fu osteggiata dai colleghi maschi, i quali non vedevano di buon occhio una donna nel loro ordine professionale, tanto che alcuni di loro, come D. Chiaves e F. Spantigati, si dimisero per protesta. Il malcontento però non si esaurì qui: qualche tempo dopo la sua iscrizione, il Procuratore regio mise in dubbio la validità dell’esame di Lidia e perciò ne chiese l’esclusione.
L’esclusione dall’ordine degli avvocati
La domanda fu accolta dal tribunale di Torino che ne ordinò l’esclusione. Lidia, però, non si arrese e si rivolse alla Corte di Cassazione, la quale non accolse la sua riammissione. Secondo gli organi di legge, le donne potevano svolgere pubblico ufficio, come gli avvocati ad esempio, solo se previsto e dichiarato dalla legge. Nel caso dell’avvocatura, però, la presenza femminile non era esplicitata e quindi non erano ammesse. È chiaro che si trattava del risultato non della legge, bensì di una concezione misogina che escludeva il genere femminile da gran parte dei campi professionali, tanto che le varie sentenze non avevano una reale base giuridica.

L’esclusione fece un gran trambusto; la maggior parte dei quotidiani raccontò la vicenda di Lidia, scatenando anche l’opinione pubblica, soprattutto da parte delle donne, le quali, forse, intravedevano nel caso della prima donna avvocato italiana una speranza per la loro condizione. Lidia, colpita sulla sua persona e professionalità, fece di se stessa una bandiera per i diritti delle donne in primis e poi per quelli dei minori. Partecipò per oltre trent’anni a Congressi penitenziari internazionali, nei quali portava avanti le sue idee di uguaglianza e parità. Aderì anche Consiglio nazionale delle Donne Italiane fin dalla sua creazione, nel 1903.
Qui, ebbe modo di organizzare congressi solo femminili allo scopo di informare e soprattutto denunciare la condizione femminile e riprovare a essere ammessa all’ordine degli avvocati che però avvenne solo nel 1919 con la Legge Sacchi che prevedeva l’ingresso del genere femminile anche nei pubblici uffici. Quando però accadde, Lidia aveva 65 anni. Questo però poco importava, e importa tuttora, perché la sua battaglia ha permesso a molte di noi di avere la libertà di oggi.

Morirà nel 1949 in Liguria. Oggi il Comune di Torino le ha dedicato un ceppo commemorativo che permette di ricordare quanto Lidia fece, non solo per le donne, ma per tutta la società italiana.