Fiuggi, da secoli nota per le sue benefiche acque, fu lungamente conosciuta come Anticoli e Anticoli di Campagna, sino al 1911. In quell’anno, infatti, sotto la spinta fornita dall’inaugurazione della Fonte Bonifacio VIII, un Regio Decreto, firmato il 9 agosto, ne sancì definitivamente la nuova denominazione, estendendo a tutto il territorio comunale quella della frazione nella quale si trovava proprio il grande stabilimento termale. A sostegno della mozione, spinta dall’allora sindaco Gian Francesco Verghetti, giunse l’appoggio di un personaggio di spicco del panorama politico italiano, nonché assiduo frequentatore della città, Giovanni Giolitti.
Origini
Giolitti nacque, a Mondovì nel 1842, in una famiglia dell’alta borghesia piemontese, con radici profonde nella tradizione cattolica. Dopo la morte prematura del padre, avvenuta quando Giovanni aveva solo un anno, la madre Enrichetta Plochiù, appartenente a una ricca famiglia di origine francese, si trasferì a Torino con il bambino. Qui, il giovane Giolitti fu circondato dall’affetto e dalle cure degli zii materni, tutti celibi e profondamente dediti alla famiglia.
L’educazione del ragazzo iniziò sotto la guida della madre, che gli insegnò a leggere e scrivere. Durante gli anni del liceo si distinse non tanto per la disciplina o l’impegno nello studio, ma piuttosto per una precoce curiosità intellettuale rivolta alla storia e alla letteratura. Egli preferiva, infatti, la lettura dei romanzi storici di Walter Scott e Honoré de Balzac agli studi di matematica e grammatica latina e greca.
Formazione
Si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Torino, laureandosi a soli 19 anni grazie a una speciale deroga rettorale. Questo precoce ingresso nel mondo accademico e intellettuale si rivelò fondamentale per la sua futura carriera. Sviluppò, infatti, una visione pragmatica della politica, influenzata da una profonda conoscenza del diritto e da una capacità straordinaria di adattarsi alle circostanze.
La sua ascesa politica fu, poi, facilitata dagli stretti legami familiari con figure di rilievo. Uno degli zii, che era stato deputato nel 1848, mantenne, infatti, stretti rapporti con il segretario di Cavour, Michelangelo Castelli. Giolitti, pur non mostrando inizialmente un particolare interesse per le questioni risorgimentali, fu introdotto in questo ambiente, frequentando personalità di spicco della politica piemontese dell’epoca.
Politica
Il giovane Giovanni iniziò la carriera politica nel 1862, lavorando al Ministero di Grazia, Giustizia e Culti, per poi passare nel 1869 al Ministero delle Finanze. Collaborò con importanti figure della Destra storica come Quintino Sella e Marco Minghetti, contribuendo all’opera tributaria volta al pareggio del bilancio dello Stato. Nel 1882, dopo aver ricoperto importanti incarichi amministrativi, fu eletto deputato e iniziò una lunga carriera parlamentare.
La sua abilità nel trasformismo, la pratica di formare coalizioni di governo flessibili e centriste, fu una delle sue caratteristiche distintive. Questo metodo permetteva di isolare le ali estreme della politica italiana, sia a destra che a sinistra, mantenendo la stabilità del governo. Tuttavia, ciò suscitò critiche da parte di coloro che lo accusavano di essere un politico autoritario e un “dittatore parlamentare”.
Il periodo compreso tra l’inizio del XX secolo e lo scoppio della Prima Guerra Mondiale è spesso definito “Età giolittiana”. Durante questi anni, Giolitti ricoprì più volte la carica di Presidente del Consiglio e Ministro dell’Interno, guidando l’Italia attraverso una fase di significative trasformazioni sociali, economiche e politiche. Fu un periodo di forte espansione economica, con la nascita della grande industria e l’inizio del primo “miracolo economico italiano”.
L’abile statista introdusse una serie di riforme sociali a favore delle classi popolari, migliorando il tenore di vita del cittadino comune. La sua politica era caratterizzata da un approccio centrista, con una prudente alternanza tra conservatorismo e progressismo. Tuttavia, le sue politiche interventiste, che includevano la nazionalizzazione delle ferrovie e degli operatori telefonici, gli valsero critiche da parte dei liberali favorevoli al libero mercato, che derisero il suo operato come “sistema giolittiano”.
Questione libica
Giolitti giocò un ruolo cruciale anche nella politica estera italiana, in particolare nella decisione di intraprendere la guerra di Libia nel 1911. Questa campagna, pur avendo inizialmente l’obiettivo di rafforzare la posizione dell’Italia sullo scacchiere internazionale e di compiacere i nazionalisti, si rivelò controversa e divisiva. Sebbene la guerra si concluse con la vittoria italiana e l’annessione della Libia, il costo umano e finanziario fu elevato, e le conseguenze a lungo termine della colonizzazione si fecero sentire negli anni successivi.
Prima guerra mondiale e Neutralismo
Allo scoppio della Prima guerra mondiale, Giolitti si schierò con la fazione neutralista, ritenendo che l’Italia potesse ottenere significativi vantaggi territoriali senza entrare in guerra. Questa posizione, tuttavia, lo pose in contrasto con i settori interventisti del paese, che vedevano nella guerra un’opportunità per completare l’unificazione italiana e rafforzare il prestigio internazionale.
La sua celebre lettera a Camillo Peano del gennaio 1915, in cui affermava “Credo molto, nelle attuali condizioni dell’Europa, potersi ottenere senza guerra”, fu vista come un simbolo del suo pragmatismo, ma anche come una manifestazione della sua riluttanza a prendere decisioni drastiche. La pubblicazione della missiva ebbe effetti disastrosi sul suo prestigio, e la sua posizione neutralista fu sconfitta dall’ondata interventista che portò l’Italia in guerra nel maggio 1915.
Dopoguerra e declino
Dopo la Prima Guerra Mondiale, Giolitti tornò al potere nel 1920, in un periodo di intense turbolenze sociali e politiche. Le sue abilità di mediatore e pacificatore, questa volta, non furono sufficienti a gestire le nuove sfide poste dalla crescente influenza dei movimenti socialisti e fascisti. Sebbene fosse riuscito a porre fine alla questione di Fiume, guidata da Gabriele D’Annunzio, egli non riuscì a mantenere il controllo della situazione politica italiana.
Sul finire del 1922, votò la fiducia al governo di Benito Mussolini, un atto che segnò il suo graduale allontanamento dalla scena politica. Dal 1924, tuttavia, si schierò all’opposizione del regime fascista, rendendosi conto del pericolo che Mussolini rappresentava per le istituzioni democratiche italiane. Questo atto finale della sua carriera politica dimostrò l’impegno per i valori liberali e l’opposizione a qualsiasi forma di dittatura.
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Eredità
L’eredità di Giolitti è complessa e continua a essere oggetto di dibattito tra storici e studiosi. Da un lato, egli è ricordato come uno dei politici più abili e influenti della storia italiana, capace di navigare con successo attraverso un periodo di grandi cambiamenti e turbolenze. Le sue riforme sociali e il suo pragmatismo politico hanno lasciato un’impronta duratura sulla società del paese.
Dall’altro lato, è stato criticato per il suo trasformismo e per l’utilizzo del potere politico per mantenere la stabilità a costo di sacrificare principi democratici e trasparenza. La sua gestione delle elezioni, in particolare nel Mezzogiorno, e il suo rapporto con gruppi criminali per garantire il controllo politico sono stati oggetto di severe critiche.
Ne emerge una figura che incarna le contraddizioni e le complessità della storia politica nazionale. La sua capacità di governare con pragmatismo e la sua visione di un’Italia moderna e socialmente avanzata convivono con le ombre di un potere esercitato in modo spesso discutibile. Il suo impatto sulla storia italiana rimane indiscutibile, rendendolo un personaggio chiave per comprendere l’evoluzione politica del paese nel XX secolo.