La chiesa di San Pietro Apostolo a Vicovaro

Una “cattedrale” per i Bolognetti

Sebbene le dimensioni monumentali e lo sfarzo degli interni, potrebbero portare a definire “cattedrale” la Chiesa parrocchiale di San Pietro Apostolo a Vicovaro, sarebbe più esatto considerarla un “duomo”, in quanto il termine “cattedrale” (da “cattedra”, ovvero il “trono” del vescovo) implica la presenza del vescovo di riferimento della diocesi, che sappiamo risiedere a Tivoli. Per “duomo” invece si intende un edificio sacro di dimensioni imponenti. Per coerenza con la bibliografia esistente e con la tradizione legata al monumento oggetto di questo articolo, si utilizzerà tuttavia il termine “chiesa”.

Per Vicovaro il Settecento rappresentò un periodo di grande rinnovamento urbanistico, con la realizzazione di importanti opere pubbliche. Nel 1692 il possesso della contea appartenuta agli Orsini fu riconosciuta definitivamente ai nuovi feudatari Bolognetti, dopo un acquisto avvenuto due anni prima per la somma di 66.000 scudi.

Dalla rocca al palazzo

I lavori, che dal 1693 si protrassero fino al 1721, partirono dalla rocca orsiniana sotto la direzione di Sebastiano Cipriani, architetto di fiducia del vescovo della diocesi di Rieti Monsignor Giorgio Bolognetti. Si aggiunse un piano rispetto alla costruzione precedente, eliminando l’area interna destinata ad uso militare e ampliando la struttura, così da ottenere una netta divisione tra parte residenziale e amministrativa, quest’ultima riservata alla produzione agricola del feudo.

I numerosi interventi comportarono inoltre la trasformazione in giardino del terrapieno bastionato superiore, con al centro la costruzione del “Tinello” per il rimessaggio invernale delle piante in vaso, la piantumazione ad orti dell’antica piazza d’armi e la costruzione di un lungo edificio destinato a granaio e altre strutture, come lo scalone d’onore del palazzo. Si realizzò anche un muro di recinzione con la volontà di mostrare un’esplicita e netta divisione tra i feudatari e la componente più popolare.

Palazzo Cenci Bolognetti  (da Tripadvisor)

Per quanto riguarda gli edifici sacri, oltre all’adeguamento del quattrocentesco Tempietto ottagonale di San Giacomo Maggiore, nel marzo 1743 Giacomo Alamandini Bolognetti diede avvio alla ricostruzione ex-novo della chiesa parrocchiale di San Pietro Apostolo.

La nuova Chiesa di San Pietro Apostolo

L’edificio a questa precedente, ormai fatiscente, si trovava presso l’arco don Mauro, in asse con l’ingresso del castello, in posizione immediatamente retrostante il principale asse viario del paese, l’attuale via dell’Archivio. Alle sue spalle si estendeva un vasta porzione di terreno libero, compresa tra il Tempietto e le varie costruzioni pertinenti alla fortezza Orsini. Di questo antico monumento non si conservano molte informazioni.

Il Nibby, nella sua “Analisi storico-topografica antiquaria della carta de’dintorni di Roma”, sostiene che una primitiva chiesa dedicata a San Pietro era stata voluta, secondo Anastasio Bibliotecario, da Papa Simmaco (498-514) agli inizi del VI secolo nei pressi di Tivoli, nel fondo Pacciano. Secondo altre fonti la chiesa, prima della costruzione ad opera dei Bolognetti, sarebbe stata ricostruita già nel XVII secolo.

Gerolamo Theodoli

I lavori per la nuova parrocchiale ebbero inizio solo nel 1745 con il progetto e sotto la sovrintendenza di Gerolamo Theodoli (1677-1766), nobile zio da parte di madre di Giacomo Bolognetti, nominato accademico d’onore dell’Accademia di San Luca intorno al 1720. L’attribuzione al Theodoli, comunemente accettata dagli studiosi, si basa su un accenno fatto dal suo biografo Francesco Milizia nella vita dell’artista, che ricorda, tra le opere romane, “una chiesa a Vicovaro”.

Sotto il pontificato di Clemente XII il Theodoli si occupò del restauro della Porta San Paolo e partecipò, assieme all’archeologo Alessandro Gregorio Capponi, al restauro dell’Arco di Costantino. Fu inoltre membro della Commissione per il restauro della Colonna Antonina, danneggiata da un incendio.

Ai suoi disegni sono riconducibili il campanile e il convento di Santa Maria dei Miracoli, il monastero e il campanile di Santa Maria in Montesanto presso piazza del Popolo, la sala interna del Teatro Argentina e la chiesa dei SS. Marcellino e Pietro in via Merulana.

Fuori Roma si occupò del restauro del ponte degli Arci nei pressi di Tivoli e nel suo feudo di Ciciliano edificò la chiesa di Santa Maria della Palla. A San Vito Romano realizzò il campanile della chiesa di San Biagio, la chiesa di San Vito e la facciata della chiesa di Santa Maria.

Caratteristiche architettoniche della chiesa

La nuova chiesa di San Pietro Apostolo, un unicum nella zona, fu concepita da Theodoli come un blocco a pianta rettangolare posizionato strategicamente tra la piazza del Tempietto di San Giacomo Maggiore e quella del Palazzo baronale, come un raccordo tra i due diversi spazi.

È caratterizzata da un impianto planimetrico a navata unica e a croce greca, ordine dorico interno, transetto e cappelle laterali, con portico al piano terra, quattro coretti e coro alto al piano superiore.

A colpire i visitatori, oltre alla presenza di due facciate e ingressi entrambi ‘principali’ ma stilisticamente differenti, sono sicuramente le dimensioni “quasi sproporzionate” del monumento rispetto allo spazio a disposizione, la cui maestosità è amplificata anche dall’elevata altezza del corpo di fabbrica.

Facciata est della chiesa di San Pietro Apostolo (da Tripadvisor)
Facciata sud della chiesa di San Pietro Apostolo (da Tripadvisor)

I due prospetti est e sud sono divisi orizzontalmente da un cornicione che delimita i due piani della struttura, a loro volta articolati nel grande portale meridionale sormontato dallo stemma dei Bolognetti, finestre (rettangolari, ovali e mistilinee) e lesene di ordine dorico nella parte inferiore e ionico e corinzio, rispettivamente nelle parti superiori della facciata orientale e meridionale.

Contribuiscono all’aspetto grandioso anche i due campanili gemelli, il sinistro con meridiana e il destro con orologio meccanico. Tipici del periodo, in un recente articolo a cura di A. Cerruti Fusco e S. Cancellieri (Una Chiesa per i Bolognetti, principi della Terra di Vicovaro: un tempio armonico di Theodoli da restaurare e valorizzare, in Il tempietto di San Giacomo e la Chiesa di San Pietro a Vicovaro. Restauri e studi interdisciplinari tra architetture e paesaggi, pp. 59-69), vengono messi in relazione con romane “rielaborazioni di esperienze barocche dal Pantheon a Sant’Anastasia, fino alle due torrette mai realizzate, che Borromini progettò per il prospetto della Sapienza prospicente la chiesa di San Giacomo degli Spagnoli”.

L’asse longitudinale della navata, che mette in comunicazione l’altare maggiore con la facciata su Largo Padre Virginio Rotondi, si interseca con un asse ortogonale che, attraverso il grande portale e il fastoso altare dedicato alla Madonna del Rosario, dà sulla facciata di piazza San Pietro e, come punto focale, sul Tempietto di San Giacomo Maggiore.

Cappella della Madonna del Rosario (foto dell’autrice)

Quest’ultima facciata presenta un’alternanza tra forme concave e convesse, concepite come un abbraccio nei confronti del popolo, molto diverse rispetto alle più rigide, classiche e severe forme dell’altra, che comunica invece direttamente con la Porta di Sopra, uno dei due accessi al centro storico di Vicovaro. Chi entra in paese dalla suddetta porta, scorgendo da lontano la facciata su Largo Padre Virginio Rotondi, subisce solo in un secondo momento, l’effetto sorpresa del monumentale prospetto meridionale e di conseguenza del punto focale sul Tempietto.

Ingresso monumentale della facciata sud, chiesa di San Pietro Apostolo (foto dell’autrice)

Come scrive il Prof. Alberto Crielesi, eminente studioso della storia e dei monumenti vicovaresi (Su alcune opere inedite di Salvatore Monosilio 1715-1776, in Strenna dei Romanisti, 2012,  p. 98): “…entrando virtualmente nella nuova costruzione l’effetto doveva essere eccezionale…la dicromia degli interni…distesa in due tonalità – fredda (bianca di stucco) per le membrature e i rilievi ed invece calda (bianco travertino) per le specchiature o fondi – era stata tesa ad esaltare, tramite la luce, la nitida intelaiatura dell’ordine ed a compensare nell’interno la scarsa luminosità proveniente dalle sole finestre poste nell’alto”.

Altra particolarità sia all’interno che all’esterno è l’utilizzo del palmo romano (27 cm circa) come unità di misura dei moduli architettonici: a titolo di esempio, la base delle lesene misura 4 palmi, mentre la loro altezza totale è pari a 36 palmi.

I Bolognetti e la musica

Al di sopra dell’ingresso orientale si trova un coro utilizzato come palco privato della famiglia Bolognetti e collegato al Palazzo Baronale da una galleria affrescata che rappresenta paesaggi tipici locali, in modo che i nobili potessero assistere alle funzioni religiose senza avere contatto diretto con la popolazione e quasi a rimarcare l’alterità rispetto a questa.

All’interno la maestosità della loggia del suddetto coro e la presenza dei quattro coretti-cantorie decorati con gusto barocco, ha fatto pensare a particolari esigenze di liturgia sacra, nella quale la musica poteva diventare protagonista di cerimonie solenni e scenografiche. Infatti il ruolo di primo piano riservato alla musica e storicamente attestato per i Bolognetti dal loro interesse per il melodramma sacro e profano, è evidente se si osserva la predisposizione dei grandi coretti, che consente l’esecuzione di composizioni policorali, caratteristiche del periodo ed eredi della stagione musicale del Seicento.

La conoscenza delle architetture teatrali e dunque dell’acustica ad esse legata, non era infatti estranea al Theodoli, se si considera che nel 1732, come sopra accennato, gli fu affidata la costruzione dell’originaria sala interna del Teatro Argentina. Anche le forme concave e gli stucchi ricorrenti negli interni, utili ad evitare echi o rimbombi, sono stati messi in relazione ad esigenze acustiche.

La costruzione della Chiesa avvenne, a causa delle difficoltà economiche di Giacomo Bolognetti, in più fasi. La consacrazione si svolse solo nel 1755 e la conclusione dei lavori di finitura interna nell’autunno del 1759.

I materiali da costruzione e le maestranze

Proprio a causa del dissesto finanziario furono impiegati anche materiali poveri e maestranze locali non specializzate. Dal Contratto di Inizio Lavori pertinente all’applicazione dell’ultimo strato di intonaco delle facciate e degli interni, si evince che, in caso di necessità, ci si sarebbe potuti servire di “Manuali del Paese”, come era avvenuto in precedenza per la costruzione dell’elevato, dove erano state assunte anche molte donne, perlopiù vedove o rimaste sole e senza parenti, dunque in cerca di sostentamento. Queste erano purtroppo destinate, a causa della mentalità dell’epoca, ai lavori più umili come il trasporto del pietrame o altri materiali da costruzione.

Per la finitura dei prospetti principali fu invece impiegata l’impresa romana dei fratelli Cometti, per ottenere un risultato che potesse conferire alla chiesa una certa dignità.

Per quanto riguarda la facciata che dà su piazza San Pietro, zoccolo, base delle paraste, stemma, balaustra del timpano, soglie e stipiti delle finestre sono stati realizzati in travertino, materiale forse troppo dispendioso per realizzare l’intera intelaiatura. Le murature in elevazione sono in opera a sacco con pietrame, mentre i cornicioni del primo e secondo ordine sono in pietra locale sponga rivestiti di fodera esterna in cortina laterizia con tracce di intonaco.

Dai documenti di archivio emergono interessanti informazioni circa la provenienza dei materiali da costruzione. Il pietrame veniva infatti ricavato sia da edifici diruti del paese che dal greto dell’Aniene. I travertini provenivano dalla vicina Tivoli, mentre per quanto riguarda i marmi facevano già parte della proprietà dei Bolognetti o erano prelevati dagli altari della precedente parrocchiale.

Si hanno addirittura i dettagli sulla provenienza del legno dei ponteggi, per i quali si utilizzarono dapprima alberi delle proprietà dei Bolognetti e in un secondo momento legno acquistato dai vicini paesi di Licenza, Roccagiovine e Mandela. Resta invece purtroppo ignota la provenienza dei legni più pregiati utilizzati per gli arredi interni.

Salvatore Monosilio e l’arredo pittorico della chiesa

Per quanto riguarda l’arredo pittorico della Chiesa, il committente diede l’incarico al pittore Salvatore Monosilio (1715-1776), già presente a Vicovaro nel tempietto di San Giacomo Maggiore con l’ovale raffigurante il Padre Eterno benedicente, di realizzare le tele per la pala sull’altare maggiore raffigurante San Pietro cui è affidato da Cristo il gregge (Gv. 21, 15-19), per il transetto San Rocco, Atanasio, Antonio da Padova e Sebastiano e nelle cappelle laterali i Ss. Luca e Sebastiano e la Natività.

Il pittore, di origini messinesi, ebbe una formazione iniziale presso la bottega di Letterio Paladino e, una volta trasferitosi a Roma, divenne allievo di Sebastiano Conca. Era molto apprezzato nell’ambito della Curia Romana in quanto, oltre ai dipinti per la chiesa della Trinità presso Montecitorio e alla produzione di stendardi in occasione delle canonizzazioni o per la Basilica Vaticana, era divenuto sovrintendente allo studio Pontificio del Mosaico e gli erano stati affidati i restauri dei tondi con la Serie cronologica dei Sommi Pontefici, per l’Anno Santo del 1750. Per la Cappella Gregoriana di San Pietro in Vaticano aveva inoltre realizzato il mosaico della cupola.

Entrò in contatto col Theodoli grazie alle committenze presso la chiesa dei SS.  Marcellino e Pietro. Ma fu a Vicovaro che gli furono assegnati i lavori più prolifici.

La grande tela dell’altare maggiore, raffigurante San Pietro cui è affidato da Cristo il gregge, presenta dimensioni notevoli: 2,75×4 m.

S. Monosilio, Cristo che affida il gregge al San Pietro Apostolo (1756), olio su tela (foto dell’autrice)

Vale la pena riportare la poetica descrizione che ne fa il Prof. Alberto Crielesi (Su alcune opere inedite di Salvatore Monosilio, in Strenna dei Romanisti, 2012 p. 180): “Vi ritroviamo i colori tanto cari al pittore: l’ocra, la terra bruciata, il verdolino, l’azzurrino del cielo ed elementi caratteristici eredità del Conca e del gusto dell’epoca, come la teatralità dei gesti che Monosilio volle accentuare. Sono pennellate sicure, decisive e nervose. La figura in primo piano dell’apostolo, dai grandi occhioni imploranti, è contorta quasi in uno spasmo, mentre riceve le chiavi dal Cristo, leggermente altero ed apollineo, che indica il gregge. L’incarnato dell’apostolo è roseo, quasi rubizzo, la barba di un candore abbacinante. Sono immagini “investite” da una lama di luce che piove decisa dall’alto a sinistra sagomando i vestimenti che avvolgono ambedue le figure, a larghe pieghe, quasi “cartonate”. Poi le tipiche figure in secondo piano assiepate a due a due, distratte, create più ad implementare la tela che a raccontare qualcosa. Sospesa sulla scena grava una pesante coltre di nubi, come un temporale estivo, animata da una turba di angioletti in un ghiribizzo gioco tra loro. Ed infine lo sfondo, con una ipotetica città, adagiata in un paesaggio in cui il pittore ha verosimilmente voluto ritrarre proprio l’arcigna Valle dell’Aniene”.

La tela è in corso di restauro grazie a una generosa benefattrice vicovarese e presto potrà essere di nuovo apprezzata nel suo antico splendore.

 

 

 

 

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