Le tappe nella vita di un Romano: dalla “pueritia” fino alla “senectus”

La nostra vita è scandita sia da brevi, anzi brevissimi, momenti e istanti, ma anche da tappe e traguardi, come il passaggio dall’infanzia all’adolescenza oppure quello dalla maturità alla vecchiaia. In quanti di noi a quindici anni ne volevano avere diciotto o venti? O al contrario, oggi che siamo adulti non vorremmo tornare ad averne quindici?

Le tappe della vita non sono un’invenzione dei tempi moderni, ma sono ben presenti fin dall’epoca romana, solo che nella loro società erano più rigide delle nostre.

Nelle società antiche, dunque, la durata di un’intera esistenza era scandita da alcune tappe “ fondamentali” sia a livello personale che sociale. Raggiungere una determinata età, significava poter lavorare, entrare nell’esercito o intraprendere la carriera politica.

Aetaes: pueritia, iuventus, senectus

Nella civiltà romana, la vita, aetates, è scandita da tre grandi momenti: l’infanzia (pueritia), la giovinezza (iuventus) e vecchiaia (senectus). Questi tre gradini generazionali erano presenti fin dall’epoca dei Sette di Roma; ne troviamo, infatti, traccia nei documenti storici su Servio Tullio, sesto re di Roma, in carica dal 578 a. C fino all’anno della morte (535 a. C). Durante il regno di Servio, dunque, queste distinzioni erano già in uso e servivano come classificazione militare dei cittadini romani all’interno dell’esercito. Secondo questa, si era considerati fanciulli fino a 17 anni d’età; dall’anno successivo, dunque, i cittadini romani erano tenuti a soddisfare i loro doveri politici e militari. Inoltre, all’interno di questo folto gruppo, si proponeva un’altra distinzione. Fino ai 46 anni, gli uomini erano detti iuniores in rapporto ai più grandi (seniores) che contava i cittadini dai 47 anni in su.

Immagine di Servio Tullio.

Nella vita privata, invece, non era proprio così. La pueritia del maschio finiva ai 14 anni, momento in cui era consentito prendere moglie e sposarsi, al contrario della donna che all’età di quattordici anni era già considerata adulta, infatti la sua infanzia/giovinezza terminava ai 12 anni d’età.

La nascita

I momenti privati, come il parto o il matrimonio seguivano un loro iter. Nel caso del parto (partus) avveniva se la famiglia poteva permetterselo con l’aiuto di una sorta di ostetrica o nutrice (in latino, nutrix), una volta nato il bambino era affidato al padre che doveva ufficialmente decidere se accoglierlo. Se la volontà era positiva, allora il pater familias compiva il gesto di sollevarlo, come se fosse una presentazione al mondo. Se, invece, la risposta era negativa, poteva decidere di esporlo (alcune fonti storiche raccontano anche di uccisioni dell’infante). Quindi, fin dalla nascita, il bambino era assoggettato alla volontà del pater familias, una situazione che cambierà solo quando raggiungerà l’età di quattordici anni nel caso dei maschi, dodici delle femmine.

Il matrimonio e il funerale

Come si evince da questi pochi dettagli, la nascita seguiva una sorta di cerimoniale ben preciso e così accadeva anche per il matrimonio, scandito dal passaggio dall’infanzia all’età adulta. Basti pensare che la sposa, infatti, il giorno precedente alle nozze, lasciava la sua tunica da ragazza ( toga preatexta) e i suoi oggetti d’infanzia, come i giochi, consacrandoli agli Dei.

Sarcofago romano. Foto di Lalupa. Wikipedia

Infine, l’ultimo atto della vita: il funerale. Come per gli altri, anche questo aveva un suo schema ben preciso. Se le famiglie del defunto se lo potevano permettere, esso doveva essere sontuoso, con canti e giochi allo scopo di omaggiare la persona persa e, insieme, di esorcizzare il dolore per il lutto. L’onore, e l’onere, di organizzare la cerimonia spettava di norma all’erede, nel caso del pater familias, altrimenti, se il defunto era un figlio o fratello, doveva occuparsene il pater familias.

Un caso etimologico

Inoltre, sono interessanti alcune etimologie, come nel caso di adulescens. Il termine adulescens, tradotto adolescente e tutt’oggi ampiamente usato, è, in latino, la forma del participio presente del verbo adolesco (adolescere) ossia “crescere” o “diventare grande”. Esso è un composto di alescere (alesco), ossia nutrirsi o, di nuovo, crescere. Alescere è, a sua volta, una forma derivata di alo (in italiano, alimentare). Seguendo, dunque, il filo semantico e simbolico di queste voci, è chiaro che il momento dell’adulescentia è il momento della crescita. Per di più è interessante notare come si siano tramandate anche in italiano, sebbene in forma leggermente diversa: il verbo alere non è sopravvissuto in questa veste, ma è tutt’oggi presente nei sostantivi “alimento” e “alimentazione”, ad esempio.

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