San Filippo, il “Santo mattacchione”. Oggi sono quattrocento anni dalla sua Canonizzazione.
Il 12 marzo 2022 saranno quattrocento dalla canonizzazione di San Filippo Neri, educatore e presbitero italiano; un Santo ancora oggi molto amato e venerato in tutto il nostro paese. Talmente noto per i suoi miracoli e il suo carattere burlone che ha ispirato numerosi film e serie televisive, basti pensare a quello del 1983 di L. Magni State buoni se potete oppure nella serie televisiva Preferisco il Paradiso di G. Campiotti nel 2010, in tale occasione fu intrepretato addirittura da Gigi Proietti.
L’infanzia
Nato il 2 luglio del 1515 a Firenze da Francesco e Lucrezia da Mosciano, ebbe un’infanzia abbastanza travagliata. Il padre, pur essendo un rinomato notaio della città toscana, decide di intraprendere la strada professionale dell’alchimia. La madre, donna pia e devota, morì appena cinque anni dopo la sua nascita. Dopo la sua morte, il padre decise di convolare nuovamente a nozze con Alessandra di Michele Lensi che si dimostrò una madre adottiva nei confronti di Filippo e dei fratelli.
La prima istruzione dell’allora bambino Filippo, come avveniva al tempo, fu in casa. Sotto la guida attenta del padre, apprese i primi rudimenti didattici ed ebbe modo di appassionarsi alla lettura, passione che lo accompagnerà tutta la vita.

In seguito, il padre lo inviò a studiare presso il Convento di San Marco evangelista a Firenze, lo stesso dove mosse i primi passi Girolamo Savonarola, per il quale nutrirà, per tutto l’arco della vita, una profonda devozione, nonostante la loro enorme differenza di visione e metodo. Girolamo Savonarola è stato un predicatore e religioso cattolico, apparteneva all’ordine domenicano. Noto in tutta la città di Firenze per i suoi moniti morali che criticavano la dilagante corruzione della Chiesa e degli ecclesiastici. Animato da profondo spirito di fede, egli fu dapprima scomunicato da Papa Alessandro VI e poi bruciato sul rogo nel 1498.
L’amore per la letteratura
Durante gli anni nel convento fiorentino, ebbe modo di avvicinarsi ancor di più alla letteratura, alcuni testi gli entrarono nel cuore: le Laudi di Jacopone da Todi, le Facezie del Pievano Arlotto -un testo umoristico e satirico scritto da un sacerdote fiorentino- e l’autobiografia di Santa Camilla da Varano.

Le prime, in particolare, furono uno dei testi più consultati e letti nel corso del secolo, grazie all’edizione princeps di F. Bonaccorsi, il quale le pubblicò in una nuova veste editoriale, attribuendo, oltre che una nuova numerazione, anche i titoli. Le Laudi, così organizzate, furono pubblicate nel 1490.
Restò a Firenze per tutta l’adolescenza, fino ai diciotto anni quando il padre, desideroso di sistemare il figlio, lo inviò a San Germano (odierna Cassino, provincia di Frosinone) presso lo zio Bartolomeo Romolo per imparare l’arte del commerciante. L’esperienza durò poco; infatti, in quegli anni iniziò a sentire la chiamata del Signore. La vocazione si fece talmente potente che decise di costruire a Gaeta una piccola cappella, nella quale era solito ritirarsi per meditare e pregare.
Il trasferimento a Roma
Nel 1534 compì il pellegrinaggio fino a Roma. Nonostante l’idea di Filippo fosse di tornare dallo zio Bartolomeo, egli accettò di essere il precettore di Michele e Ippolito Caccia, figli del fiorentino Galeotto, capo della dogana pontificia. Ancora oggi, abbiamo testimonianza sia della sua modesta paga, che consisteva in un unico sacco di grano che diventava per Filippo, grazie a un accordo precedente con un fornaio romano, un pagnotta e dell’alloggio, una piccolissima stanza con un letto, un tavolo da scrittura e un filo appeso alle due pareti opposte che fungeva da armadio. In seguito sia Michele che Ippolito seguirono la stessa strada del loro precettore: il primo divenne un sacerdote diocesano in una località vicino a Firenze, l’altro un monaco certosino.
A Roma, però, ebbe l’opportunità di seguire alcune lezioni di Filosofia presso l’Università della Sapienza e i monaci di Sant’Agostino. Inoltre, oggi sappiamo, grazie agli elenchi dei “volontari”, che prestò servizio di carità presso l’ospedale di San Giacomo, uno fra i più antichi della città; di origine medievale, ebbe una notevole fortuna nel corso del Cinquecento quando fu adibito a ricovero per i poveri e gli infermi della città.
Durante questo periodo d’intensa attività religiosa, fu protagonista di un evento straordinario che gli cambiò la vita: secondo la tradizione, infatti, nel giorno della Pentecoste del 1544, Filippo si trovava in preghiera nelle catacombe di San Sebastiano, tra le più antiche di Roma, quando il cuore e le costole cominciarono a dilatarsi, diventando sempre più grandi. Ne troviamo traccia anche nei resoconti medici, dopo la morte.
La vita da eremita
A seguito di questo evento, abbandonò la casa della famiglia Caccia per ritirarsi come eremita fra le vie di Roma. La sua vita in questo momento consisteva nel dormire all’aperto o sotto portici di qualche Chiesa. Pellegrinava per la città, passeggiava nelle piazze e nelle vie vestito con una tonaca con il cappuccio adagiato sulla testa. Rapidamente i giovani iniziarono a deridere il suo aspetto e il suo modo di vivere. Filippo, però, non si tirò mai indietro a queste “burle”, anzi partecipava volentieri, unendosi a quei giovani.

Ben presto, diventando noto in tutta la città, i giovani romani lo presero di mira ancor più pesantemente rispetto alle mere parole. Si racconta, infatti, che organizzarono uno scherzo molto fine: invitarono Filippo a casa con l’apparente volontà di offrirli un pasto, ma in realtà i giovani fecero entrare alcune prostitute, ma egli non capitolò anzi resistette con fermezza alla tentazione carnale.
Ancora un’altra volta, dovette resistere: invitato a casa di un’altra prostituta di nome Cesaria che lo aveva invitato per donargli un pasto caldo, Filippo scoprì che i suoi piani erano diversi da quelli sperati. Una volta in casa, la donna gli si presentò con lo scopo di sedurlo e anche questa volta Filippo resisté, fuggendo da casa sua.
La fondazione della confraternita della Santissima Trinità
Nonostante questi indegni episodi, continuò ad assistere gli infermi e i poveri della città. Ogni giorno si recava presso gli ospedali di San Giovanni e Santo Spirito e alla confraternita della Carità (creata da Papa Clemente VII). La sua opera divenne talmente importante che istituì, il 16 agosto del 1548, una sua confraternita, quella della Santissima Trinità dei pellegrini con lo scopo, non solo di curare i malati e i poveri, ma di accoglierli.
Già dai primi anni dalla sua fondazione, constava di quindici uomini che erano giunti lì, attratti dalla misericordia e saggezza di Filippo. Il luogo della Confraternita era la casa di Persiano Rosa, suo padre spirituale e mentore. Qui accoglievano anche i pellegrini, tanto che era soprannominata “La casa dei pellegrini e dei convalescenti”.

Persiano Rosa fu una figura fondamentale nella vita di Filippo, lo aiutò e supportò lungo tutto il suo percorso spirituale. Si racconta, infatti, che grazie alle insistenze di Rosa che Filippo decise di prendere il sacerdozio. Nel 1551 ricevette dal vescovo di Sebaste (Roma), G. Lunelli, la tonsura (il rito, oggi abolito, che segnava l’ingresso nello stato clericale) e i quattro ordini minori. Infine il 23 maggio dello stesso anno fu ordinato sacerdote.
L’anno 1551, dunque, segnò un punto di svolta e un nuovo capitolo nell’esistenza di Filippo. Si dedicò immediatamente all’esercizio della confessione che considerava come una sorta di dialogo con chi aveva peccato. La sua dedizione lo resero celebre in tutta Roma, tanto che la sua notorietà suscitò invidie e gelosie anche fra i confratelli, in particolare furono due, di cui ancora oggi ignoriamo i nomi, che nutrirono un forte risentimento nei confronti di Filippo.
Essi erano soliti nascondergli i paramenti per la Santa Messa o sbeffeggiarlo, Filippo non si faceva demoralizzare da tali comportamenti, ma, anzi, come aveva già dimostrato, “stava al gioco” tanto che entrambi i monaci entrarono poi nella sua confraternita e, addirittura, uno di loro gli donò alla sua morte l’intera eredità.
La fondazione dell’Oratorio
Negli anni seguenti, riuscì a fondare un Oratorio presso la Chiesa di San Girolamo della Carità posto nei locali superiori della basilica. Con questo però si attirò nuovamente le invidie di alcuni ecclesiastici, come il cardinale V. Rossi che non mancò in vari occasione di diffamarlo pubblicamente e di negargli il sacramento della confessione, tanto caro a Filippo.
Nel 1559 egli ebbe modo il potente cardinale Carlo Borromei (1538-1584), con cui strinse un profondo e duraturo rapporto di amicizia. Più volte, secondo le parole dello stesso cardinale, si recò da Don Filippo per chiedergli consigli e supporto.
Il cardinale Borromei fu uno dei personaggi più influenti della sua epoca; oltre che religioso, fu un abile politico e un proficuo mecenate che sostenne, per tutto l’arco della vita, l’arte e la letteratura. La sua opera cristiana è ancora oggi ricordata con stima e venerazione. Egli fu canonizzato il 1 novembre del 1610 da Papa Paolo V ( Camillo Borghese).
Qualche anno più tardi (1564), Papa Pio IV gli concesse la Chiesa di San Giovanni Battista de’ Fiorentini (Roma) ma Filippo, talmente legato a quella della Carità, la donò ai giovani che avevano istruito e seguito che nel frattempo erano diventati sacerdoti. Ancora, nel 1575 Papa Gregorio XIII, successore di Pio IV, eresse la Congregazione dell’Oratorio e, di conseguenza, gli dette la Chiesa di Santa Maria in Valliccella, che ne divenne poi la sede.

In Santa Maria in Valliccella, Don Filippo promosse numerose attività che, oggi potremmo definire avanguardiste, come quella di gruppi di preghiera, di lettura della Bibbia, di didattica nei confronti di ragazzi poveri, fondando una scuola per la loro istruzione.
Purtroppo la sua salute peggiorò, soprattutto gli anni dal 1581 al 1595 furono segnati da numerosi disturbi che lo minarono nel corpo e nello spirito. Don Filippo, accorgendosi, che la fine era prossima, scrisse per ben tre volte il testamento. Nonostante queste complicazioni, la sua opera continuò a crescere e a diffondersi per il resto del paese, arrivò addirittura a inaugurare una scuola a Napoli.
Il miracolo
È proprio di questi anni, l’avvenimento di un miracolo. Filippo riuniva nel proprio Oratorio, non solo i ragazzi con difficoltà, ma anche quelli nobili e benestanti. Tra di loro, una sera, si trovava il quattordicenne Paolo, appartenente a una facoltosa famiglia romana.
Il ragazzo aveva una salute molto fragile ed era spesso afflitto da numerose malattie che gli comportavano profondi dolori. Il 16 marzo del 1583 Paolo morì, fu chiamato immediatamente Don Filippo per l’ultima confessione, ma questo non fece in tempo. Quando giunse, il ragazzo era già morto. Allora, Filippo, preso dal rimorso di non essere arrivato in tempo, iniziò a chiamarlo, come se lo volesse riportarlo indietro, fu così che dopo qualche istante Paolo riaprì gli occhi e cominciò nuovamente a parlare.
La morte e la canonizzazione
Arrivato ormai prossimo alla morte, nell’aprile del 1595 fece chiamare il suo più stretto amico, il cardinale Federico Borromei, per amministrargli personalmente l’eucarestia. Il cardinale trovò Filippo sul punto del trapasso, anche se a livello morale dimostrava sempre la solita forza d’animo e il suo umorismo. Dopo questo, quando tutti erano preparati a perderlo, sembrò che si fosse ripreso, tanto che riuscì a celebrare le sante funzioni. Purtroppo, due giorni dopo fu colpito da un’emorragia celebrale che lo condusse alla morte. Era il 26 maggio del 1595. FOTO 10
Dopo la sua morte, ebbe subito fama di santità tra i fedeli che lo avevano conosciuto e questa non mancò ad arrivare per la sua umanità. Fu proclamato Santo qualche anno dopo, nel 1622.
Qualche considerazione
Si può considerare Filippo Neri tra i santi meno tradizionali del cattolicesimo, definito da molti il “Santo della gioia” o il “Buffone di Dio” o “Il Santo della gioia” per il suo spiccato umorismo. Era una persona colta, creativa, altruista e benevola che amava servirsi dell’ironia per diffondere la parola del Signore, famose sono le sue parole rivolte ai giovani romani che lo prendevano in giro:
Fratelli, state allegri, ridete pure, scherzate finchè volte, ma non fate peccato.
La sua grande umanità era percepita durante il momento della confessione: egli ascoltava nobili e poveri, facoltosi e abbietti allo stesso profondo modo.
Inoltre, qualche volta assegnava punizioni abbastanza bizzarre e fuori dal comune per far sì che il peccatore non ricadesse nel solito errore: a una donna, ad esempio, che sparlava malignamente degli altri, Don Filippo assegnò come penitenza quella di spennare in strada una gallina morta e poi di raccogliere una a una tutte le piume, trasportate via dal vento. Il motivo di quest’originale punizione era per far capire alla donna che le sue parole si spargevano velocemente come le piume della gallina.
Da tutti i suoi contemporanei era chiamato “Pippo il Buono” per la sua indole bonaria, non solo con gli uomini, ma anche con gli animali. Era un grande amante, tanto che nella sua casa a Roma aveva una piccola gatta, un meticcio bianco e svariati uccellini che tornavano nella loro gabbia ogni sera, dopo aver svolazzato per la città.

Infine, egli è stato l’inventore del pellegrinaggio delle Sette Chiese, in contrapposizione con il Carnevale. Il primo fu nel 1551, San Filippo riprese e riportò in auge un’antica tradizione medievale che veniva svolta nel corso della Quaresima. Tale pellegrinaggio si svolgeva il giovedì grasso e consisteva nel rendere omaggio alle sette chiese principali di Roma: la Basilica di San Pietro, quella di San Paolo, quella di San Giovanni in Laterano, quella di San Lorenzo, quella di Santa Maria Maggiore, di Santa croce in Gerusalemme e quella, infine, di San Sebastiano. Tale tipo di pellegrinaggio è tutt’ora praticato dai fedeli.