Cecco Angiolieri, il poeta dimenticato

IL POETA DIMENTICATO
(a cura di @Maria Lupica e @Sabrina Ferrari) pagina Facebook Feudalesimo.

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1.S’i’ fosse foco, arderei ’l mondo;
2.S’i’ fosse vento, lo tempesterei;
3.S’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei;
4.S’i’ fosse Dio, mandereil’en profondo;

5.S’i’ fosse papa, sare’ allor giocondo,
6.ché tutti cristïani imbrigherei;
7.S’i’ fosse ’mperator, sa’ che farei?
I.A tutti mozzarei lo capo a tondo.

9.S’i’ fosse morte, andarei da mio padre;
10. S’i’ fosse vita, fuggirei da lui:
similemente farìa da mi’ madre.

11.S’i’ fosse Cecco, com’i’ sono e fui,
torrei le donne giovani e leggiadre:
e vecchie e laide lasserei altrui.
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IL POETA

Poeta maledetto e forse dimenticato, eppure questa sua poesia l’abbiamo letta e studiata sui banchi di scuola. Non cantò in dolce stil nuovo, come Dante di cui fu contemporaneo e antagonista, bensì in una sua parodia satirica nel filone letterario della poesia giocosa, affermatasi tra il XIII e il XIV secolo e che era in netto contrasto con lo stile imperante e tanto caro all’illustre fiorentino.

L’AMICIZIA CON DANTE


Si conobbero nella battaglia di Campaldino, quando entrambi combattevano per la fazione guelfa. Si dice che da questo incontro nacque un’amicizia sincera, ma di brevissima durata, e i due si scambiarono sonetti dal lessico non tanto forbito, in forma di tenzoni, portando avanti uno scambio epistolare in versi estremamente ingiurioso. Nessuno seppe mai le cause certe per cui questa loro amicizia si ruppe e si ipotizza che, data la loro indole agli antipodi non poteva durare.

BECCHINA

Del resto persino la sua visione di donna non fu angelicata, ma tutto l’opposto: significativo fu il suo amore di vita per Becchina, ossia Rebecca figlia di un anonimo conciatore di pelli, con la quale ebbe una squallida tresca finché poté pagarne i favori carnali. Ella era l’anti-Beatrice per antonomasia, in quanto la prima elevò l’Alighieri al Paradiso, mentre lei portò ignobilmente il suo innamorato clandestino dritto alla fossa.

IL MODELLO LETTERARIO

Il suo modello letterario fu in un certo senso il plazer provenzale, ovvero l’elenco di cose piacevoli per dilettare il lettore, in cui si inneggiava in modo simile alla taverna, al vino e al gioco d’azzardo e al piacere sessuale con donne di facilissimi costumi, in modo rozzo e volgare, i cui maggiori esponenti italiani dopo di lui furono: Rustico, Donati, Filippi e, sotto sotto, persino l’Alighieri di cui sono rimasti i suoi sonetti epistolari con il Rustico.


Era inevitabile che in queste piccole ma potenti città stato autosufficienti dal punto di vista economico, politico e soprattutto culturale, in cui i benestanti economicamente si volevano divertire, questo stile letterario fuori dalle righe e dissacrante trovasse terreno fertile per attecchire in quanto inneggiava alla vita terrena e al godimento di tutto ciò che di gaudente poteva offrire, incurante del Giudizio Divino e della terribile punizione ultraterrena che poteva comportare una vita dissoluta.

CENNI BIOGRAFICI

Cecco nacque a Siena nel 1260 circa, da una nobile e ricchissima famiglia papalina: figlio del ricco banchiere del pontefice massimo Gregorio IX, la madre era Lisa della blasonata famiglia Salimbeni. Nonostante la sua posizione privilegiata, fin dalla giovinezza manifestò la sua indole più che ribelle, scapestrata, gettando il disonore sulla sua stimata ed illustre casata. Già nel 1281 prese parte alla battaglia per la conquista del castello ghibellino di Turri in Maremma, essendo di famiglia guelfa, fu multato più volte di ben due lire, per diserzione.

Altre multe ebbe l’anno seguente, finché nel 1289 non venne esiliato dalla città natale, tragico evento che limitò la sua prolissa composizione poetica, dove parla di se in prima persona. Purtroppo molti dei suoi scritti andarono perduti o erroneamente furono attribuiti ad altri, ce ne restano circa cento.

IL SONETTO

Il periodo della sua attività fu cruciale per il sonetto, in quanto si ebbe un momento di transizione: alla forma originaria, inventata dai poeti Siciliani della corte di Federico II e caratterizzata dalla fronte a ottetto a rime alternate ABABABAB, si affianca la variante con quartine a rime incrociate ABBA ABBA, che alla fine ebbe divenne la norma nel Trecento.

Nella sirma continuava a prevalere lo schema a rime alternate CDCDCD, a fianco, come nella produzione dei Siciliani, della rima ripetuta CDE CDE e la sua articolazione era sempre in due parti.
Si passò perciò da una forma sonetto tripartita (un ottetto e due terzine) a una quadripartita (due quartine e due terzine) e da un andamento binario per la fronte e ternario per la sirma ad un andamento quaternario per la fronte e ternario per la sirma.

Che egli, com’era normale, percepisse la sirma bipartita è plausibile, ma dei suoi sonetti: quarantasei hanno la forma ha rime alternative e ottantuno hanno forma a rime incrociate.

GLI ULTIMI ANNI

Del suo esilio sappiamo solo che soggiornò a Verona e poi anche a Roma dove lavorò per il cardinale Petroni e che poté rientrare a Siena solo nel 1312 per morirvi non più tardi del 1313.
Alla sua morte del cospicuo patrimonio di famiglia non rimaneva più nulla, tanto che la sua vedova e i suoi cinque figli dovettero rinunciare alla sua eredità, con tanto di documento notarile per i troppi debiti accumulati nella sua vita mal vissuta.

CONCLUSIONE

Molte cose potrei ancora scrivere su di lui, ma per lasciare ai lettori l’arduo giudizio di stabilire se l’Angiolieri Cecco fu veramente poeta o solo laido bagordo e se meritasse o no la corona d’alloro, si conclude qui con un altro sonetto dove scaturisce violentemente la sua indole controversa che anelava solo a ciò che può dargli godimento e quando non lo poteva avere si abbandonava senza vergogna ad un comportamento triviale, caratterizzato da urla, bestemmie e maledizioni verso il proprio padre terreno che giudicava avaro, ma che a ragione gli negava la moneta da sperperare nei suoi stravizi.

Un sonetto “programmatico”, in cui l’autore elenca le cose che gli procurano piacere nella vita e che, con un lessico più basso, è vicino piuttosto ai “carmina potatoria” della letteratura mediolatina.

Tre cose solamente m’ènno in grado,
le quali posso non ben ben fornire,
cioè la donna, la taverna e ’l dado:
queste mi fanno ’l cuor lieto sentire.

Ma sì·mme le convene usar di rado,
ché la mie borsa mi mett’ al mentire;
e quando mi sovien, tutto mi sbrado,
ch’i’ perdo per moneta ’l mie disire.

E dico: «Dato li sia d’una lancia!»,
ciò a mi’ padre, che·mmi tien sì magro,
che tornare’ senza logro di Francia.

Ché fora a tôrli un dinar[o] più agro,
la man di Pasqua che·ssi dà la mancia,
che far pigliar la gru ad un bozzagro.

FONTI

– L’ora di italiano sui banchi di scuola;
Biblioteca della Letteratura Italiana: Tratto dai Moduli di letteratura italiana ed europea, di A. Dendi, E. Severina, A. Aretini Carlo Signorelli Editore, Milano;
– Manuel BARBERA Università di Torino b.manuel@inrete.it;
– Enciclopedia Treccani;
– Accademia.edu.