La Nebbia e gl’irti colli, piovigginando sale. San Martino di Giosuè Carducci.   Fra politica, letteratura, amori e poesia: la vita del primo premio Nobel italiano Giosuè Carducci.  

Quanti di noi si ricordano i versi La nebbia e gl’irti colli, oppure I cipressi che a Bolgheri alti e schietti vanno in duplice filar. Tutti noi lo abbiamo studiano a scuola, abbiamo imparato a memoria le sue poesie, le abbiamo amate o odiate, ma qual è stata la vita del primo Premio Nobel italiano per la letteratura, Giosuè Carducci?

Giosuè -o Giosue, come voleva essere chiamato- Carducci nasce a Valdicastello (provincia di Pietrasanta) il 27 luglio del 1835 da Michele e Ildegonda Celli, primogenito della coppia dimostrerà fin dalla tenera età una vivace intelligenza letteraria.  Il padre, studente in medicina, conobbe Ildegonda durante il suo esilio a Volterra (provincia di Pisa); infatti, egli, ardente mazziniano, fu mandato nella città volterrana per le sue idee politiche.

La famiglia Carducci

Appena dopo tre anni dalla nascita del primogenito, la famiglia Carducci si sposta a Bolgheri (provincia di Livorno) dove il padre ha ottenuto la condotta medica; qui il piccolo Giosue trascorrerà un’infanzia serena, coccolato dalla madre e dalla, nota, Nonna Lucia, ossia la madre di Michele. Negli anni bolgheresi il futuro Vate d’Italia dimostrerà i tratti che poi lo contraddistingueranno nell’età adulta. Amante della natura e ribelle,  si racconta infatti che portò a casa un falco, una civetta e un cucciolo di lupo e, in seguito, il padre se ne liberò: ammazzando il falco e regalando il cucciolo di lupo, dando un profondo dispiacere al piccolo Giosuè.

Michele e Ildegonda ebbero nel frattempo altri due figli: Dante e Valfredo, il quale nascerà proprio a Bolgheri.

Viale dei cipressi a Bolgheri, foto di Giada Marzocchi

La vita della famiglia nel piccolo borgo toscano trascorse serena, sebbene il primogenito della coppia fosse stato afflitto da numerose febbri per circa due anni. Egli si faceva curare da Michele ma senza rilevanti risultati fu mandato a Castagneto per godere della sua aria collinare. La serenità della famiglia non era dovuta dalla situazione finanziaria, poiché essa era molto precaria, tanto che i genitori non potevano permettersi di mandare a scuola Giosuè. Fu così che il padre Michele si occupò personalmente della sua educazione; lo stesso Poeta racconterà che la sera, al ritorno da lavoro, Michele gli insegnava il latino e gli spiegava i classici della letteratura greca e romana.

La natura di Michele però non si fece attendere e così le sue idee politiche alla fine riemersero; la vena repubblicana di Michele si scontrò con quella più conservatrice del luogo. Il padre in questo modo si mise contro i Conti della Gherardesca e il parroco del paese, Don Bussoti. Michele fu accusato da entrambi di aizzare i contadini verso di loro. La situazione con il tempo peggiorò tanto che il padre fu costretto a scappare insieme alla famiglia, trovando rifugio nel vicino borgo di Castagneto Marittimo (1848), dove rimarranno per circa un anno.

A Bolgheri e a Castagneto Carducci

La permanenza nel caratteristico borgo maremmano è di breve durata, poiché il padre fu accusato nuovamente di incitare i contadini alla rivolta e, in un momento di assenza, Michele aveva elargito le terre dei conti ai contadini. Nella Casa, oggi visitabile, è possibile ancora oggi vedere il mandato di comparsa della Questura di Pisa nei suoi confronti. Con tale episodio, la famiglia riprende “armi e bagagli” e si sposta verso Laiatico (provincia di Pisa), nel quale nel giro di pochi mesi si ripresenta lo stesso problema e così Michele decide di provare a trasferirsi in una grande città, la scelta ricade su Firenze.

A Firenze
Panoramica di Castagneto Carducci

Nella città fiorentina Giosuè riesce a completare gli studi presso i padri Scolopi di San Giovannino, dimostrando una preparazione e attitudine allo studio fuori dal normale. Inoltre è proprio a Firenze che incontrerà la sua futura moglie: Elvira Menicucci, figlia di Francesco e della sua prima moglie. Il padre di Elvira aveva sposato in seconde nozze la sorella di Ildegonda, Anna, ed è così che il quattordicenne Giosuè conoscerà sua moglie.

Dopo la permanenza a Firenze, I Carducci, tranne Giosuè che rimarrà a Firenze per completare gli studi, si trasferiscono a Celle sul Rigo (provincia di Siena).

Dopo la fine degli studi classici, egli raggiunge per un breve periodo la famiglia nel paese senese, fin quando per meriti non fu accattato alla Scuola Normale di Pisa, nella quale nel 1855 si laurea a piena voti in Lettere e Filosofia. Per Giosuè gli studi universitari furono fondamentali per la sua produzione e preparazione poetica; egli ci si dedicò con anima e corpo, dimostrando un amore profondo per la letteratura. Dopo la laurea, riuscì a ricoprire qualche incarico nei licei toscani, come a San Miniato a Tedesco con la cattedra di retorica.

La famiglia, invece, continuava a vivere una situazione economica precaria; trasferitasi a Santa Maria a Monte (provincia di Pisa), il padre non riuscì a ingranare nel lavoro di medico, per di più il secondogenito Dante iniziò ben presto a dargli numerose preoccupazioni. Egli, al contrario dei fratelli, non aveva nessuna intenzione di lavorare né di studiare ed è proprio nel borgo pisano che accadde la tragedia che Giosuè si porterà dentro tutta la vita: il suicidio del fratello (1857).

In realtà, intorno a questo non c’è ancora molta certezza su quello che accadde; infatti poco dopo la tragedia, iniziarono a circolare voci che avallavano la tesi dell’omicidio da parte del padre Michele. Il dolore che colpì Michele per la morte del figlio fu incolmabile che lo fece ammalare. Morì nel 1858, appena un anno dopo la scomparsa del figlio Dante.

Professore a Bologna
Carducci, ritratto nella foto di R. Borghi

Negli anni seguenti, Terenzio Mamiami, ministro della Pubblica Istruzione del Regno d’Italia, offrì a Giosuè la cattedra all’Università di Bologna e così egli divenne insegnante di Eloquenza italiana, ossia di Letteratura in termini ottocenteschi. Ne rimarrà docente per circa quarant’anni.

La sua produzione poetica inizia ben prima di questa svolta lavorativa, infatti risale al 1848, quando aveva solo tredici anni, il sonetto A dio, composto da Giosuè per un concorso scolastico. Inoltre aveva già pubblicato con l’editore Barbèra l’opera omnia di A. Poliziano (1863), di cui ne aveva curato l’edizione.

Le raccolte poetiche

La consacrazione letteraria avvenne quando Barbèra gli propose di pubblicare un volume che raccogliesse tutte le poesie composte, dalle prime fino alle ultime: così nel 1871 apparvero le Poesie, divise in Decennali (1860-1872), Levia Gravia ( 1857-1870) e Juvenilia (1850-1857). Nelle prime sono raccolte le composizioni politiche, nelle seconda e nella terza erano raccolte i componimenti editi nel volume pubblicato nel 1868 presso la tipografia Niccolai e Quarteroni di Pistoia, firmate con lo pseudonimo Enotrio Romano.

A Bologna, intanto, la famiglia si allargò con la nascita di tre figlie: Beatrice (1860), Laura (1864) e Libertà (1872). Purtroppo non mancarono anche gravi lutti, in particolare l’anno 1870 fu il più tragico per il poeta; morirono infatti sia la madre Ildegonda sia il tanto atteso figlio maschio Dante, a cui il poeta dedicò Pianto Antico (raccolta poi nelle Rime Nuove): … la pergoletta mano che tendevi al verde melograno. La morte dei piccolo Dante sarà un dolore che si porterà dentro tutta la vita.

Il richiamo di Castagneto Carducci
L’aula di Bologna, nella quale insegnò dal 1860 al 1904

Intanto il richiamo della Maremma e di Castagneto si fece sempre più forte, deciso a rivivere i ricordi della sua infanzia e a ritrovare quella natura che lo aveva sempre affascinato, tornò nel borgo sulle colline livornesi numerose volte dal 1879 al 1894 alla ricerca dei suoi amici d’infanzia ed è proprio durante questi brevi ma intensi soggiorni che ebbe l’ispirazione, per quelle poesie che allargano il cuore ancora oggi, come San Martino (raccolta Rime Nuove), Davanti San Guido (Rime Nuove), Traversando la Maremma Toscana (Rime Nuove). A Castagneto, dunque, ritrovava i vecchi amici e con essi era solito organizzare le “Ribotte”, pranzi talmente lunghi che diventano cene a base di specialità maremmane.

La Ribotta a Castagneto Carducci

Il nome, di origine livornese, deriva dalla tradizione che prevede che dopo il pranzo uno dei commensali chieda “ci facciamo un’altra botta? , ossia mangiamo di nuovo  e da lì, appunto, il termine ri-botta. Nella zona castagnetana era abitudine farle in grandi spazi aperti e alla quale partecipavano solo i cittadini maschi e quelli più illustri dell’epoca. La più nota è sicuramente quella del 1885 fatta alla Torre di Donoratico, della quale al Museo Archivio ( Castagneto Carducci, in provincia di Livorno) si conserva la foto. Amante del buon cibo, la “ribotta” era un’occasione imperdibile per il poeta quando veniva a Castagneto Carducci.

Sono infatti di questi anni le raccolte poetiche che gli daranno, non solo una fama nazionale, ma internazionale: Rime Nuove e Le Odi Barbare. Le prime raccolgono, oltre le poesie citate, i componimenti dal 1831 al 1887. La seconda raccoglie la produzione dal 1877 al 1889. Chiaramente, continuò con grande passione l’insegnamento universitario, formando personalità di primo livello, come Giovanni Pascoli o Severino Ferrari.

La Massoneria
Dettagli della mostra sulla Massoneria al Museo Archivio a Castagneto Carducci. Foto di Giada Marzocchi

Insomma poeta, critico e insegnante, una personalità travolgente che non mancava di avventurarsi in nuove scoperte. Risale al 1862, infatti, l’adesione alla Massoneria, affiliato alla loggia bolognese in cui però rimase poco tempo. Nel 1866 fu tra i fondatori della loggia Felsinea, sempre a Bologna, e nella quale raggiunse il grado di maestro, fra i più alti e onorifici. In seguito, dopo vari vicissitudini, entrò a far parte delle loggia di Propaganda massonica con sede a Roma (1886).

Non fu solo questo, infatti, con un decreto regio nel 1881 fu nominato nel consiglio superiore dell’Istruzione del Senato del Regno d’Italia; aveva tra gli altri oneri, anche quello di concedere o negare la libera docenza dei candidati. Secondo molte testimonianze, egli fu irremovibile verso quei candidati, a suo avviso, troppo protetti o troppo sponsorizzati dalle Università. Fu nominato, infine, senatore nel 1890.

Gli amori

Nella sua vita non mancarono gli amori. Molte donne all’epoca lo consideravano uomo affascinante e sensibile per la sua vena poetica. Oltre alla moglie Elvira, egli ebbe anche altre relazioni amorose. Le amanti ufficiali furono due: Carolina Cristofori Piva e Annie Vivanti.

Carolina Cristofori Piva

Carolina sarà la sua musa per circa dieci anni; sarà Lidia delle Primavere Elleniche ( raccolte poi nelle Odi Barbare). Era sposata con Domenico Piva, ex garibaldino. La loro conoscenza fu inizialmente epistolare ed iniziò quando Carolina gli mandò una lettera piena di complimenti e ammirazione. Tra loro iniziò un fitto carteggio. Si conobbero nel 1872 quando Giosuè si recò a Milano per incontrarla. Da questo punto, tra i due scoppiò un amore travolgente fin quando la salute fragile della donna non peggiorò, portandola alla morte nel 1881.

Annie Vivanti
Carolina Cristofori Piva

Annie Vivanti, di madre tedesca e padre italiano, fu una delle prime donne a palesarsi come poetessa in Italia. Nel 1899 arrivò a Giosuè una sua lettera, nella quale chiedeva di poterlo incontrare per sottoporgli una raccolta di versi. S’incontrarono così nel 1890 e tra loro scoppiò una passione amorosa, nonostante la differenza di età; lei, infatti, aveva appena ventiquattro anni e lui più di cinquanta.  

Annie Vivanti e la figlia Vivien

La storia andò avanti tra i due, anche quando Annie decise di sposare John Chartres, da cui ebbe una figlia – Vivien- . La relazione terminò quando Annie si trasferì con la famiglia oltre oceano. Con Giosuè si rivide nel 1902, pochi anni prima della sua morte a Bologna. Annie, invece, morì nel 1942, un anno dopo il suicidio della figlia Vivien.

La Regina Margherita

Inoltre all’epoca sospettarono e malignarono che il poeta avesse una relazione con la Regina Margherita di Savoia, consorte di Umberto I di Savoia. Su questa diceria, non abbiamo prove certe e non ne rimane traccia epistolare.

Nonostante tale incertezza, il poeta rimase affascinato dalla bellezza della Regina Madre, come veniva chiamata dopo la morte del re Umberto, tanto che le dedicò un’ode meravigliosa, intitolata Alla Regina d’Italia, nella quale descrive tutto il suo fascino. Si videro per prima volta nel pomeriggio del 4 novembre del 1878. La sera dello stesso giorno parteciparono entrambi a un banchetto, durante il quale ebbero modo di fare conoscenza.

La morte

Da questo punto in poi la salute del Poeta iniziò a peggiorare, colpito da varie paralisi – l’ultima gli negò l’uso della mano destra-, nel 1904 si ritirò dall’insegnamento; la cattedra, dopo varie insistenze, passò a Giovanni Pascoli che era stato prima suo studente e poi suo amico intimo. Il riconoscimento del suo immenso contributo alla poesia italiana arrivò nel 1906 quando l’Accademia svedese gli conferì il Premio Nobel per la letteratura, fu il primo italiano a riceverlo.

Chiaramente per la precaria situazione di salute, egli non poté recarsi a Stoccolma a ritirare l’ambita pergamena e così gli fu consegnata a mano nel suo studio a Bologna; ciò è stato un unicum nella storia dei Nobel, non è mai più successo. Inoltre fu organizzata in Svezia una cerimonia ufficiale dove si recò una delegazione del governo italiano. Purtroppo, si godette molto poco il premio, morì infatti il 16 febbraio nel 1907, lasciando un grande vuoto nel panorama letterario internazionale. Fu sepolto con funerali solenni alla Certosa di Bologna, dove tutt’oggi riposa

Condividi