Gli ordini monastici medioevali, a cura di Rossana Lenzi

Gli ordini monastici medioevali

Per meglio comprendere gli ordini religiosi, sia pure in modo approssimativo, dobbiamo partire dalla distinzione tra ordini
canonici e ordini monastici.
Ordo, ordine nel nostro contesto, significa “organismo religioso che segue proprie regole di vita”.
Nel corso dei primi secoli la Chiesa aveva visto sorgere al proprio interno svariati ministeri. Agli apostoli, ben presto definiti
vescovi , si affiancarono i presbiteri[1] e i diaconi[2]
Nei primi tempi della vita chiesa cristiana esiste solo dunque una forma di vita consacrata, l’ordine canonico.
Nel frattempo in Oriente, da dove proveniva la nuova religione, era sorto e si era andato sviluppando un tipo di vita che
andava alla ricerca del modo migliore di avvicinarsi a Dio, modellandosi sull’esempio di Sant’Antonio il Grande che, verso il
270, si era ritirato nel deserto per consacrarsi ad una vita solitaria di preghiera e di ascesi. Questo tipo di vita, basato
inizialmente sulla solitudine (anacoreti da anchoresis, in greco ritiro – eremiti da eremus in latino deserto), si andò
sviluppando sopratutto in Cappadocia (Turchia asiatica).

La regione ha anche oggi una configurazione austera e grandiosa grazie alla millenaria e combinata azione dei diversi agenti
erosivi sui tufi e sui basalti, che ha plasmato colonne e coni, torri e piramidi, e punteggiato le valli di guglie e di torri a
comignolo, note col curioso nome di “camini delle fate”, oltretutto composte di materiale tufaceo, quindi facili da scavare.
Era quindi lo scenario ideale per quegli uomini decisi ad isolarsi dal mondo alla ricerca della perfezione.
Lungi dal rappresentare una novità assoluta, l’esperienza del monachesimo cristiano si conformava perfettamente a tutta una
serie di esigenze e di pratiche assai diffuse nella società tardo antica sopratutto orientale. Nuovo era tuttavia il soccorso che
gli asceti cristiani chiedevano alla grazia divina, quale fattore indispensabile per la crescita spirituale e per un più pieno
esercizio delle virtù. Nuovo era anche il più ampio e profondo significato sociale attribuito all’esperienza del singolo monaco:
un’esperienza destinata col tempo a connotarsi di un sempre più potente valore salvifico non solo per sé ma anche per gli altri;
esperienza che andò pian piano trasformandosi in una vita solitaria, una fuga mundi vissuta però in comune, dovuta anche alla
consapevolezza che l’ascesi solitaria portava inevitabilmente ad una specie di competizione per il raggiungimento di una vita
più dura e di rinunce sempre più severe che si concludevano talvolta in gare di vanagloria e di invidia.
Cominciarono pertanto ad organizzarsi gruppi di asceti in strutture collettive.

Fu l’affermarsi del cenobitismo – dal greco, koinos, comune e bios, vita – vale a dire un’esperienza monastica contraddistinta
da una vita in comune e disciplinata secondo usanze che si andavano man mano concretando, prima sopratutto con San
Pancomio (292/346), nel cui monastero compare per la prima volta la figura dell’abate, e poi con San Basilio, che nel
monachesimo orientale occupa la posizione più eminente[3], tanto che ancor oggi la maggior parte dei monaci greci e slavi ne
osserva la regola o ne segue una ad essa inspirata.

Le sue norme puntano su due principi tra loro congiunti: una concezione assai elevata dell’obbedienza dovuta all’abate e la
comunità monastica intesa non come una semplice associazione di singoli ma come un gruppo compatto tenuto assieme dalla
volontà comune di salire la scala che porti ad una più intensa vita spirituale.

Questo tipo di monachesimo esercitò una notevole influenza sulle forme successivamente sorte in Occidente, dove cominciò
a diffondersi nel IV secolo dopo Cristo.

Nel periodo medioevale la fioritura degli ordini monastici fu assai copiosa, e lo fu in particolare agli inizi (VI secolo) e al
culmine di quell’età (XI, XII e inizi del XIII secolo): L’influenza esercitata da monaci e religiosi fu allora straordinaria per
ampiezza e intensità, sopratutto se confrontata con quella che ebbero in altri secoli[4]. Ebbero parte preminente
nell’evangelizzazione dei popoli ed esercitarono una influenza concreta sulla cultura e sullo sviluppo economico, cosa che
alla fine in parte li travolse, quando non furono più in grado di gestire il nuovo mondo che avevano contribuito a creare.
Dunque, da questo punto di vista, il Medioevo fu, più di ogni altra età, il tempo dei monaci e dei religiosi.

La regola monastica Benedettina

Ad affrontare in modo sistematico il monachesimo che si andava diffondendo in occidente fu San Benedetto (480-547).
Quando il Santo comincia a fondare i suoi monasteri, il monachesimo aveva già avuto modo di espandersi in Occidente,
attraverso figure come San Martino di Tour e San Girolamo.
I monaci vivevano in comune, riuniti in un cenobio, o monastero[5].
L’ideale monastico era più o meno il medesimo: abbandono del mondo e impegno costante di una vita di penitenza e di
preghiera, tuttavia esistevano differenze in seno a tali esperienze ascetiche, a seconda che venisse data maggior importanza
all’individuo o alla comunità, alla solitudine o allo spirito ecclesiale, al disprezzo del mondo o ad un iniziale interesse verso i
valori culturali.

 


Benedetto, recatosi a Roma per gli studi e disgustato dal clima morale ivi riscontrato, si ritirò, in solitudine pressoché
assoluta, in una grotta (il Sacro Speco di Subiaco), aiutato da un monaco dei dintorni che gli provvedeva il cibo. Dopo tre
anni, a causa dell’accorrere di numerosi discepoli, aveva fondato dodici monasteri, con dodici monaci ciascuno.[6] L’ostilità
di un sacerdote del luogo lo indusse a trasferirsi a Montecassino e là, dove preesisteva un tempio pagano, costruì una dimora
e un luogo di preghiera per i fedeli che lo avevano seguito. Era l’anno 525 dell’era cristiana.
E’ probabile che ad un simile trasferimento abbia contribuito un’evoluzione della sua stessa concezione monastica, passata da
una forma federativa di unione tra diversi monasteri ad un tipo di monastero unico, completamente autonomo, come quello di
Montecassino.

San Benedetto ha un’idea ben precisa intorno al suo monastero e alla vita che in esso si deve condurre: istituisce nuovi uffici

(il maestro dei novizi, l’infermiere), stabilisce nuovi rapporti non solo dei monaci col superiore (l’abate) ma anche dei monaci
tra di loro, incentivando il senso di fraternità; particolare risalto viene dato alla celebrazione dell’ufficio divino (Opus Dei),
mentre al lavoro vengono assegnate numerose ore della giornata. Il motto ora et labora che non si trova nella regola e, come
tale, è stato formulato soltanto nel secolo XVIII, solo parzialmente può rendere ragione di una esperienza così complessa e
feconda, in cui grande importanza ha pure la pratica della lectio divinis, lettura sapienziale dei testi biblici.
La regola di San Benedetto è dunque fondata sull’equilibrata fusione di due attività fondamentali. la preghiera e il lavoro;
quest’ultimo, a sua volta, aveva due diverse connotazioni: una, manuale, legata alla coltivazione della terra, che, inizialmente,
viene prevista solo in via eccezionale, preferendosi dare importanza ai lavori di carattere artigianale svolti all’interno del
monastero; l’altra, intellettuale, legata alla trascrizione dei testi sacri. Con l’andare del tempo, l’attenzione al lavoro della terra
fece sì che nel corso dell’alto medio evo si sviluppassero numerose aziende agricole, del resto indispensabili per nutrire il
gran numero di ospiti dei conventi: si è calcolato che i centri monastici, in Piemonte, nell’alto Medioevo, fossero più di
novecento.[7]

La preghiera era invece concepita come espressione e trasmissione della parola sacra, sia orale che scritta:

Per questo motivo i monaci erano tenuti sia al canto corale che alla lettura ad alta voce dei testi sacri, che si svolgevano ad ore dettate dalla
regola. Inoltre venivano spesso impiegati nella trascrizione e nella decorazione miniata dei libri di culto. Nacquero così
importanti “scriptoria”, centri di confezione libri a partire dalla concia delle pelli di pecora necessarie per la pergamena. Il
lavoro di trascrizione era di per sé un atto devozionale: i monaci erano costretti a rimanere fermi, per lunghe ore, al tavolo
inclinato, senza particolari conforti: disagio che molto spesso esprimevano scrivendo brevi frasi di disappunto o di preghiera
nel margine nascosto dei manoscritti.

Con il diffondersi della regola di San Benedetto assunse anche una maggior importanza il computo delle ore, e sopratutto
l’individuazione dell’ora nona, corrispondente all’incirca alle due del pomeriggio, perché in quel momento il monaco doveva
smettere il lavoro e recarsi al refettorio, e quindi segnava l’interruzione principale della giornata.
Il giorno medioevale, come quello romano, cominciava dal mattino, con la levata del sole, che era l’ora prima. Alcune ore
poi, essendo quelle stabilite come momento della preghiera giornaliera dei monaci, erano diventate particolarmente
importanti per l’intero corpo sociale, e venivano dette canoniche. Si tratta del mattutino, della prima, terza, sesta e nona, dei
vespri ed infine della compieta.
L’Ordine monastico fondato da San Benedetto fu non soltanto il più importante del Medio Evo, ma praticamente, fino circa il
1200, l’unico, poiché gli altri, sorti nel periodo di tempo che corre tra il VI e il XIII secolo, non furono che derivazioni da
esso.

La Regola Benedettina si diffonde in Europa

Le notizie su San Benedetto ci pervengono attraverso gli scritti del grande Papa San Gregorio Magno (540-604), del secolo
successivo. Quando San Gregorio ne scriveva, tra il 593 e il 594,[8] Montecassino aveva già subito la sua prima distruzione
totale ad opera del Longobardi (577). I monaci di Montecassino avevano trovato rifugio a Roma.
In quegli anni l’Italia era in ginocchio. Aveva giù vissuto la devastazione delle guerre gotiche, (535-553) accanitamente
disputata com’era tra i goti e i bizantini; continue piogge, straripamenti di fiumi e carestie avevano piegato molte zone d’Italia
e anche di Roma; la peste aveva fatto numerose vittime e tra queste l’allora papa Pelagio II. L’opera di San Benedetto, e non
solo quella, pareva irrimediabilmente perduta.

Nel 590 fu nominato Papa San Gregorio Magno. Per risollevare l’Italia fece letteralmente miracoli, cominciando con
rifornimenti di grano chiesti in Sicilia e non stancandosi di invitare tutti alla fede ed alla preghiera. Ma la sua opera come
pontefice si estese a tutto l’Occidente romano, in cui il solo paese pagano era rimasta l’Inghilterra anglosassone; nel 596 San
Gregorio inviò in Inghilterra, per la conversione di quel popolo, il monaco Agostino con altri quaranta monaci. Papa
Gregorio Magno ordinò ai missionari di Roma che inviò in Inghilterra di appropriarsi delle feste e dei templi pagani e di
trasformarli in feste e templi cristiani. Le stesse direttive furono applicate nell’Europa continentale e nel resto del mondo
romano.[9] Attraverso tale missione, la Regola benedettina cominciava a varcare i confini della Penisola; del resto il più
antico – anche se non il più autorevole- manoscritto della Regola è un codice inglese. I successori di Sant’Agostino ne
continuarono l’opera, fondando il monastero di Westminster, dove ora vengono incoronati i Re d’Inghilterra.
A partire da questo periodo la diffusione della Regola, mediante la fondazione dei monasteri nel Nord Europa, procedette di
pari passo con la propagazione del Vangelo in quegli stessi paesi, e la conseguente evangelizzazione delle diverse
popolazioni germaniche. Saranno infatti i monaci celti e anglosassoni, riversatosi sul continente, a favorire
l’evangelizzazione, la cultura e le fondazioni monastiche, ponendo le premesse per un’adozione sempre più completa della
regola benedettina.

Con qualche eccezione: sul subito, e ancora per qualche secolo, rimane immune dall’influsso benedettino l’Irlanda, in quanto
custode di tradizioni monastiche proprie, tenacemente radicate in quel paese da dove provenivano asceti e missionari come
San Colombano, fondatore tra l’altro, del monastero di Bobbio. Chi è stato in Irlanda ed ha visitato i siti della vecchia
religione, non può non avvertire la differenza dal resto dell’Europa: le croci celtiche di pietra chiara a specchio sul mare terso
di luce, la pace diffusa, l’intraducibile malia del verde e del sole, il tutto contribuisce a creare alcuni di quei rari luoghi dove
lo spirito trova sollievo.

In Italia, frattanto, era risorto (nel 717) il monastero di Montecassino, ma è anche vero che col trascorrere del tempo, la
unione sempre più stretta tra vita monastica e strutture medioevali, (gli abati nominati dagli imperatori), gli interessi materiali
che aumentavano via via, i compiti amministrativi sempre più onerosi, la crescente tensione con gli ordini canonici sono
all’origine di quel fenomeno individuato come “crisi del cenobitismo” che si aggravò una volta morto Carlo Magno.
Carlo Magno, Re dei Franchi, dei Longobardi e Sacro Romano Imperatore intendeva mettere ordine nei monasteri, tentando
in sostanza la riforma di una situazione che andava degenerando e volendo imporre in tutto l’Impero l’osservanza alla Regola
Benedettina.

Questa l’intenzione si attuò solo più tardi quando, morto Carlo Magno nello 814, salì al trono il figlio Ludovico.
Ludovico non aveva né l’energia né le capacità del padre, ma questo non gli impedì di portare avanti la riforma monastica,servendosi dell’opera di un monaco, Benedetto di Aniane.

Nell’anno 817 Ludovico convocò nel suo palazzo di Aquisgrana un
sinodo monastico durante il quale, per opera di Benedetto di Aniane, si impose l’osservanza della Regola in tutti i monasteri
dell’Impero. Oltre alla Regola, poi, ogni monastero aveva le proprie Osservanze o Consuetudini, per colmare il divario tra la
Regola stessa e gli adattamenti richiesti dal variare del clima, dei luoghi, dei costumi locali ecc.
Apriamo una parentesi per dire – poco – delle abbazie in Piemonte a quei tempi. Parlo di qwuelle del Piemonte perché è il
luogo dovo vivo e che meglio conosco.

Abbazie in PIEMONTE durante l’Alto Medio Evo

Tutti i centri di vita monastica, nel linguaggio corrente, possono essere definiti monasteri oppure, se retti da un monaco-
priore, “priorati”; soltanto quelli dotati di un proprio abate, eletto regolarmente dai monaci, venivano chiamati abbazie.

L’abbazia era il centro di una grande istituzione monastica, spesso ramificata su un vasto territorio, con chiese e monasteri
dipendenti. L’abbazia ne era la casa madre, cui tutti si riferivano. L’abate ne era il padre: non a caso il termine deriva dalla
parola abba che significa padre in aramaico.
”Sorgeva l’abbazia in una valle ridente, densa di uomini, costellata di chiese e di luoghi per le orazioni a Dio, dove
quell’esercito immenso di monaci si riuniva per la preghiera”[10] Questa è la suggestiva descrizione data da un cronista verso
la metà dell’ XI secolo, dell’Abbazia dei Santi Pietro e Andrea di Novalesa, fondata dai Franchi nel 726 ai piedi del colle
del Moncenisio.


In Piemonte il monachesimo abbaziale si presenta come una grande varietà: dalle prime abbazie fiorite durante la
dominazione franca e longobarda, controllate direttamente dal potere regio e dai suoi rappresentanti, alle numerosi istituzioni
monastiche dei secoli immediatamente successivi, fondate da grandi famiglie o istituite dai vescovi nella propria diocesi,
espressioni in entrambi i casi di autorità e di prestigio, fino ad arrivare alle abbazie cluniacensi e a quelle cistercensi, che
interpretavano in modo nuovo la regola benedettina.

Le abbazie, dunque, unitamente alle organizzazioni vescovili nelle città e a quello che restava di una organizzazione
amministrativa dell’impero devastato della invasioni barbariche permisero di arrivare all’impero carolingio e di superarne in
qualche modo la dissoluzione. Si era arrivati faticosamente alla fine dell’alto medio evo.
Tra le grandi famiglie marchionali piemontesi (il territorio precedentemente diviso in ducati dai longobardi, era poi stato dai
Franchi diviso con più precisi confini in contee poi radunate in marche nei punti più strategici, sopratutto di confine) del X e
XI secolo che fondarono importanti monasteri vanno citati gli Aleramici nel Monferrato e gli Arduinici nel Torinese. Per
restare vicino a me, che abito nella Valsesia,l’abbazia di San Nazzaro Sesia venne fondata tra il 1040 e il 1050 dai conti di
Pombia. Di origine signorile, ma dipendente dalla giurisdizione del Vescovo di Novara fu invece l’abbazia di San Silano di
Romagnano Sesia.

In ogni caso, le due più importanti furono la Novalesa, di cui abbiamo già parlato, e San Michele della Chiusa, detta anche
Sacra di San Michele.

Quest’ultima, per la sua storia e l’eccezionalità della sua costruzione, situata sulla vetta del monte Pirchiriano, a strapiombo
sulla valle della Dora Riparia, e a 962 metri di altitudine sul livello del mare, è stata dichiarata nel 1994 monumento simbolo
del Piemonte.

Già prima della fine dello XI secolo il monaco cronista Guglielmo aveva avuto parole di ammirazione per la grandiosità della
costruzione. Lo stesso nome della montagna su cui fu edificata, “Porcairano”[11] o “montagna dei porci”, mal adattandosi
alla dignità della costruzione, fu trasformato dai monaci in Pirchiriano o “montagna del fuoco”. La nuova denominazione
rifletteva il culto che gli uomini del Medioevo rendevano all’arcangelo Michele, l’angelo della luce, il difensore del popolo
cristiana in cammino verso la Gerusalemme celeste. Questo culto aveva nel Medioevo tre principali mete di pellegrinaggio,
tutte e tre poste su di un monte: Mont-Saint-Michel in Normandia, Monte Sant’Angelo sul Gargano e, a metà strada tra questi
due antichi santuari, la Sacra di San Michele, sul monte Pirchiriano.

La fondazione non è databile in modo preciso. Venne probabilmente fondata tra il 983 e il 987 e consacrata più tardi, intorno
agli anni 998-1002 e probabilmente su un luogo di culto precedente, forse addirittura precristiano.

Interessante è il modo di collocare questa particolare abbazia al centro di una visione del mondo circostante. Essa infatti può
considerarsi un chiaro esempio di fondazione-pellegrinaggio, espressione di un monachesimo e di una sfera di interessi non
solamente italiani, ma francesi, più esattamente della Francia centromeridionale, che le assicurarono subito un orientamento
europeo, propiziato dal fatto che l’abbazia sorgeva lungo la via Francigena, la grande strada di Francia che attraverso il valico
del Moncenisio collegava l’Italia all’Europa occidentale.
Questo orientamento spiega l’estensione del suo vastissimo patrimonio: antiche abbazie, monasteri, priorati disseminati nella
Catalogna meridionale a ridosso dei Pirenei, nel Mezzogiorno della Francia e al ridosso del Massiccio Centrale, nelle valli del
Rodano e delle Alpi occidentali, in Svizzera e nel Vallese e in Italia nella pianura padana fino a raggiungere il Mincio, nella
Liguria orientale da Genova a Chiavari e sul Gargano a Siponto presso Manfredonia
L’ordine cluniacense (I monaci neri)[12]
ovvero l’apice del monastero benedettino

Ludovico il Pio, che fu presto chiamato il Buono per la debolezza del suo carattere, non seppe mantenere l’organizzazione che
aveva permesso a suo padre di rifondare l’impero,il Sacro Romano Impero. Molti errori gli attribuiscono gli storici,
essenzialmente quello di avere prematuramente suddiviso l’impero tra i figli, indebolendolo e di avere sostituito la vecchia
amministrazione coi suoi seguaci, del tutto inesperti. Così, l’ appropriazione da parte dei laici era iniziata e fu la causa
principale della decadenza dei monasteri.

A questo aggiungasi le devastanti invasioni dei saraceni mussulmani dal sud e dalla
Liguria provenendo dal mare, nonché in Piem0nte, provenendo dai valici Alpini a confine con la Francia, e dei normanni
pagani dal nord, che durarono fino alla conversione del loro capo Rollone e si stanziarono nella regione che da loro si chiamo’
Normandia. Siamo arrivati agli inizi del X secolo. La pace coi Normanni era assicurata,i Saraceni avevano finito o diminuito

le loro incursioni, l’esigenza di rinnovamento era sentita da tutta la cristianità.
In questo contesto nasce il monastero di Cluny, in Borgogna, monastero libero da ogni ingerenza civile o ecclesiastica e posto
direttamente alle dipendenze della Sede Apostolica.
L’11 settembre del 909 un altissimo personaggio, Guglielmo, duca d’Aquitania, soprannominato Guglielmo il Pio, sentendo di
essere giunto al termine della sua vita terrena, fece un bilancio e sentì di avere ricevuto da Dio molto più di quanto potesse
restituire; in segno di ringraziamento decise quindi di fondare un monastero benedettino.[13][14]
Chiamò Bernone, abate già noto per il suo severo spirito riformatore e gli chiese di scegliere tra le sue terre quella che gli
avrebbe donato per fondarlo.

Bernone rispose: “Mio signore, io non desidero altro luogo, per costruirvi questo monastero, all’infuori di Cluny”, Il duca
restò sgradevolmente sorpreso dalla richiesta, in quanto quella era la sua principale residenza in Borgogna, con boschi,
fattorie, pascoli, campi arati e vigneti fra i migliori. Rispose: “Ma questo dominio è percorso in tutti i sensi da cacciatori e
cani; i religiosi non vi troveranno mai pace.” “Cacciate i cani – rispose Bernone – e sostituiteli con i monaci. Cosa ci sarà più
utile al cospetto di Dio: l’abbaiare dei cani o le preghiere?”
Così nacque la più celebre abbazia della cristianità medioevale, destinata ad avere una fondamentale importanza nella storia
della Chiesa e della società per alcuni secoli.

La carta di fondazione conteneva tutti i particolari sulle intenzioni del donatore e le modalità della donazione; intenzioni che
verranno condivise per tutte le donazioni di questo genere, al di là delle diverse ragioni di carattere pratico.
“E’ evidente a tutti coloro che hanno retto discernimento che, se la divina Provvidenza ha voluto che ci fossero persone
ricche,, lo ha voluto perché esse facessero buon uso dei ben provvisoriamente posseduti… La ricchezza di un uomo è il
riscatto della sua anima.”.

Il duca cedette le sue proprietà alla chiesa di Roma: con questo espediente intendeva sottrarre il monastero ad ogni intervento
di forze esterne, cercando in tal modo di difendere e conservare il patrimonio monastico in un’epoca in cui spesso i laici
tendevano ad impadronirsene in maniera diretta o indiretta. Certo, l’autorità pontifica non aveva i mezzi per far rispettare tale
clausola, tanto più che il papato esercitava allora un’influenza alquanto debole e la sua azione a stento superava i confini
dell’Italia. Eppure il prestigio della Sede Apostolica restava grande e, sopratutto, le sanzioni che essa pronunziava avevano
un’eco assai maggiore di quelle di un qualunque vescovo. Inoltre, l’appartenenza del monastero al dominio di San Pietro
escludeva gli interventi importuni dell’episcopato ed implicava quell’esenzione di cui inseguito Cluny avrebbe goduto.

Nell’atto di donazione le intenzioni di creare un monastero indipendente da intromissioni esterne sono bene evidenti,
mostrando come Guglielmo voglia che sul monastero non si estenda alcun dominio laico:
“Abbiamo voluto inserire in questo atto una clausola in forza della quale i monaci qui riuniti non siano soggetti al giogo di
nessun potere terreno, neppure al nostro, né a quello dei nostri congiunti, né a quello della regia maestà. Nessun principe
secolare, nessun conte, nessun vescovo e neppure il pontefice che siede nella sede romana potrà mai impadronirsi dei beni
spettanti ai suddetti servi di Dio…”

L’esclusione dei laici e di ogni potere esterno implica la libera determinazione del monastero, ossia, innanzitutto, la libera
elezione dell’abate, principio fondamentale della regola benedettina che Guglielmo vuole sia osservata a
Cluny.

Possiamo cogliere sentimenti devoti del fondatore non soltanto nella precauzione con cui volle garantire il patrimonio del
monastero ed il rispetto della regola benedettina, ma anche nella scelta di Bernone come primo abate.
Il grande prestigio che Cluny ha avuto nella Chiesa si deve sopratutto alla sua organizzazione come centro monastico
indipendente, sopratutto fino alla metà del secolo XII, dalle ingerenze della chiesa e del potere laico. Fino al 1157, anno in
cui morì Pietro il Venerabile, l’ultimo dei grandi abati, i suoi abati furono ascoltati da papi e imperatori,consultati dai vescovi
e spesso invitati ai concili, perchè rappresentavano la migliore spiritualità monastica del mondo cristiano di allora. Cluny
seppe creare un vero e proprio ordine monastico, sempre derivante da quello benedettino ma con molto maggior fasto e
ricchezza, l’ordine cluniacense, forse il primo vero e proprio Ordine centralizzato nel senso moderno del termine.

Le abbazie dell’ordine di Cluny svilupparono un forte senso di orgogliosa indipendenza dall’autorità ecclesiastica,
dichiarandosi soggette unicamente al papa, e schierandosi contro i vescovi. L’Ordine intendeva reagire ai danni costituiti dalle
intromissioni dei laici, dalle rivendicazioni di signori feudali che avevano contribuito alle fondazioni, dall’imposizione di
abati estranei , dalle usurpazioni dei beni, dai danni dell’ospitalità obbligata a militari e funzionari imperiali. I primi abati, tra
cui San Maiolo, furono figure gigantesche che diffusero l’ordo cluniacensis in ogni regione d’Europa, con ramificazioni
dirette o anche indirette anche in Italia. Nel momento di massima espansione, sotto il governo di Pietro Venerabile, purtroppo
l’ultimo dei grandi, l’Ordine contava circa duemila case dipendenti in tutta Europa, tra le quali sei o sette anche in Italia.
Sostanzialmente valgono di base le regole di San Benedetto: sono presenti le figure dell’abate, del priore e del cellario; ai
quali vengono affiancati dalle Consuetudini, nuovi ufficiali: refettoriere, cantoniere, giardiniere; ogni monaco del convento
risponde del proprio operato al Capitolato conventuale, retto dal priore, il quale rispondeva a sua volta unicamente all’abate di
Cluny.

La liturgia viene celebrata con solennità e cura veramente singolari: culto della Chiesa stessa al Signore, doveva
rappresentare un’anticipazione della vita dei beati in cielo. Cluny coltivò anche la cultura e l’arte; lasciò una delle più ricche
collezioni di manoscritti, sapendo contribuire alla cultura nel campo della letteratura, della musica, dell’architettura e della
scultura.

Deve tutto ai suoi primi, grandi abati: dopo Bernone successore fu Ottone, Santo, fu il vero fondatore dell’Ordine, in quanto
lo dotò delle Costituzioni: a lui si deve la riforma, che passerà alla storia come Riforma Cluniacense. Le ore canoniche erano
cantate secondo la regola di San Benedetto; Oddone curò con particolare attenzione il canto liturgico alla salmodia gregoriana
aggiunse inni, cantici, antifone e responsori, che diedero più ampiezza e bellezza alle cerimonie.
I suoi successori furono alla sua altezza: Maiolo, Santo, Odilone, Santo, Ugo, Santo, che governò Cluny per ben sessanta
anni: alla sua morte, avvenuta nel 1109, Cluny è al massimo della sua potenza.
Una importante presenza benedettina cluniacense dalle mie parti consisteva nel Priorato di San Pietro di Castelletto, in
località Castelletto Cervo, provincia di Biella, ubicato nella fascia prealpina lungo il corso del torrente Cervo, in diocesi diVercelli. Il priorato si inseriva nello sviluppo della pratica della transumanza nell’allevamento del bestiame. Gli armenti
monastici svernavano nelle terre collinari di Castelletto e della vicina Greggio, dove erano le brughiere o baragge, ed in
estate erano avviati verso gli ampi alpeggi delle sorgenti della Sesia, sotto i ghiacciai del Monte Rosa.
Complesso monastico fondato dai monaci Cluniacensi nello XI secolo, esso venne eretto come “monastero privato” della
famiglia dei conti di Pombia, a seguito della donazione fatta nel1083 dal conte Guido all’abbazia di Cluny di numerosi beni.
La famiglia dei Conti di Pombia manteneva tuttavia sotto stretto controllo il nuovo ente ecclesiastico, riservando ai suoi
membri il diritto di advocatio sul priorato, ovvero il diritto di intervento nella nomina del priore, e di controllo finanziario sui
beni del monastero.
Altra testimonianza della presenza dei monaci di Cluny è rimasto, nella vicina Lombardia occidentale, il monastero di San
Salvatore, che fu donato all’ordine da Carlo Magno quando sconfisse i Longobardi e citato per la prima volta in una bolla
papale del 1095

Il fenomeno più inconsueto che caratterizzò la prima fase dello sviluppo cluniacense in Italia – ossia in Piemonte e
Lombardia – fu[15]la costituzione e il fondamento di almeno cinque fondazioni femminili, di cui una nella diocesi di Novara,
a Cavaglio. Questa, a differenza di altri, ebbe una vita autonoma rispetto alle fondazioni maschili ma anche una storia
travagliata e più breve. In assai buona situazione economia, frutto delle solite e numerose donazioni, fu retto, tra il 1180 e il
1230, da due badesse molto abili come amministratrici. Alla morte della seconda, fu nominata la nuova badessa, Benvenuta,
la quale quasi immediatamente attribuiva al proprio padre Giacomo la carica di procuratore generale per amministrare tutti i
beni del monastero.

L’incarico fu subito esercitato da Giacomo, nel febbraio del 1231, con la richiesta a tutti gli affittuari, di
consegnare i beni del priorato. E’ lecito supporre che la sua amministrazione sia stata fraudolenta, e così partì dal vescovo
una richiesta di riforma al papa. La storia è lunga e lunghe furono le decisioni pro e contro la badessa e alcune consorelle a lei
legate, ma alla fine il monastero fu sottratto all’ordine cluniacense verso la fine degli anni 1200, quando ormai l’intero ordine
era completamente in crisi.

I monasteri fondamentali per la ripresa intorno all’anno 1000

Torniamo all’anno 1000, quando una nuova epoca sta nascendo e Cluny anche è nata da poco e sta mano a mano
espandendosi. Per quanto il suo apporto sia stato fondamentale per la rinascita dai scoli bui dell’alto Medio Evo, non è stato
l’unico.
Il segnale più evidente di una nuova epoca nella storia d’Europa fu la crescita demografica. Cominciò nei decenni che
seguirono l’anno mille[16] con un cambiamento nelle pratiche sociali che mise fine all’infanticidio e all’aborto, che erano stati
metodi di uso comune per il controllo delle nascite nei gruppi contadini durante l’età carolingia.

Quello che si verificò fu la coincidenza tra la pressione della Chiesa per mettere fine a queste pratiche considerate moralmente inaccettabili e la necessità dei proprietari terrieri di disporre di un numero maggiore di contadini. Si favori quindi l’aumento dei figli in ogni nucleo
familiare, e questi provocò una vera e propria esplosione demografica negli anni1060-1070. Con il passare degli anni, questi
bimbi costituirono la base di un cambiamento nelle abitudini contadine che riguardavano il mono rurale, in quanto
l’economia europea dello XI secolo fu sostenuta da un numero maggiore di braccia impiegate nelle attività agricole,
favorendone l’espansione.

Il primo effetto di questa crescita della popolazione fu la liberazione dei contadini da una scarsezza alimentare cronica,
anche se l’irregolarità dei raccolti provocava ancora gravi carestie tuttavia alleviate in parte dalla pratica dell’oblazione[17]
nei monasteri. La distribuzione di alimenti a chi ne abbisognava, sotto forma di messi o di altri prodotti, fu una vera e propria
istituzione in quest’epoca e arrivò ad avere un’autentica funzione economica: aiutò a sostenere la crescita demografica anche
nei luoghi in cui un cattivo raccolto avrebbe avuto come conseguenza solo morte e carestia. Con l’appoggio dell’oblazione dei
monasteri i contadini realizzarono la prima e più importante attività fra quelle che portarono ad un notevole sviluppo agricolo
in Europa.

Lo sviluppo cominciò con l’espansione delle superfici coltivate, ora che c’era una maggior numero di braccia a permettere di
farlo. I cinquantasette anni compresi tra il 1020 e il 1077 rappresentano la fase iniziale dei grandi dissodamenti medioevali.
I documenti sono molto attendibili sotto questo aspetto, in particolare per quanto riguarda i “cabrei”[18], ossia gli elenchi dei
beni dei monasteri. Infatti, da circa la metà del IX secolo, i monasteri lasciarono puntigliose testimonianze scritta dei beni di
loro proprietà, ivi compresi ovviamente i terreni, beni la cui descrizione era assai curata nei dettagli, anche per quanto
riguarda le misure, nonché le raffigurazioni dei fabbricati, anche rurali e di secondaria importanza (pollai, canili ecc.) poiché
agli elenchi venivano allegate accurate rappresentazioni dei beni, con disegni di cui la più parte non semplici abbozzi, ma
accurati disegni di grande bellezza., ovviamente per i fabbricati più importanti.

I terreni venivano affidati in coltivazione a contadini chiamati generalmente coloni, in cambio di parte del raccolto e a volte
in cambio di strumenti nuovi e realmente validi come la zappa di ferro, il cuneo di ferro per gli aratri o i ferri per i cavalli.
Il ferro in particolare era prezioso e lo era già dai primi secoli del Medioevo: in tutte le storie affrescate della vita di San
Benedetto è riportato un suo significativo miracolo: “Un giorno, un uomo falciava i rovi vicino al monastero, quando il ferro
della falce si staccò dal manico e cade in un abisso senza fondo, e l’uomo si afflisse molto. Ma San Benedetto mise il manico
della falce nel cavo della fontana, e ben presto il ferro, uscendo dalla roccia, nuotò fino al manico.” E’ possibile vedere una
versione di questo episodio nella serie di affreschi dell’abbazia benedettina di San Nazzaro Sesia.
Si dovrà arrivare all’inizio del secondo millennio perché la produzione del ferro, diminuita come tutti i tipi di attività
estrattiva a partire dal III secolo dopo Cristo, anche se non mai cessata del tutto, riprenda con uno slancio che sottolinea lo
sviluppo generale della civiltà occidentale in quel periodo di tempo.

Insieme al boom demografico della popolazione il XII secolo portò all’Europa una rivoluzione tecnologica di primaria
importanza: la siderurgia. Il ferro (già così prezioso di per sé) e l’acciaio elaborati nei forni di fusione (altiforni) furono
utilizzati nella produzione di strumenti che trasformarono le tecniche agricole. E furono i monasteri cistercensi che
contribuirono a diffondere dai principali centri di irradiazione – la Champagne meridionale e la Borgogna del Nord – il nuovo
e più redditizio modello di sfruttamento minerario. L’uso di questi nuovi strumenti, combinato con l’aumento della nuova

popolazione libera provocarono un decisivo incrementi della produzione agricola e dello allevamento. In tal modo si
poterono lavorare anche i terreni sassosi degli altopiani, i contrafforti delle montagne e i terreni disboscati. L’acciaio dei
nuovi strumenti agricoli poteva superare tutti gli ostacoli. I dissodamenti cambiarono il paesaggio agricolo: pulirono i confini
dei boschi dalle erbacce e dalle radici profonde che impoverivano il terreno, aumentandone così la resa; questo portò a sua
volta un surplus agricolo, da cui si formò la rendita dei proprietari dei terreni. L’immissione di prodotti sul mercato favorì il
commercio.

Erano inoltre finite le invasioni saracene ed ungare, col conseguente aumento di mobilità umana ed un rinnovato rapporto tra
città e contado.

Tutto ciò finirà col tempo per creare un’alternativa al potere regale, a quello dei vescovi e al potere monastico in genere. Nel
frattempo, in questo nuovo quadro di società medioevale, oltre ad aver contribuito a crearlo, l’influenza di Cluny fu immensa,
rialzando il livello spirituale sia nel clero che nel laicato. A Cluny era esaltata sopratutto la celebrazione liturgica, anche se la
lunghezza degli uffici in coro portava ad una riduzione del lavoro manuale. La ricchezza, la grandiosità dei monasteri, il
gusto per la liturgia solenne erano il segno, per i contemporanei, di una rigorosa disciplina monastica. Notevole fu
l’impressione dello splendore dei riti su popolazioni ancora primitive e grande anche l’esercizio della carità verso i poveri ed i
malati.

Il prestigio derivava anche dal fatto che, di fronte alla diffusa anarchia contemporanea ed ai continui disordini di un tempo
senza pace, Cluny offriva l’esempio dei benefici derivanti dalla centralizzazione e dall’elevatezza dei suoi ideali. Estendendosi
in ogni paese e accrescendo in maniera unica l’autorità dell’abate di Cluny, l’ Ordo Cluniacensis contribuì in modo efficace al
consolidamento della cristianità medioevale e al rafforzamento dell’autorità papale. La lotta per la libertà della Chiesa dalle
ingerenze imperiali, l’idea di crociata, la rinascita religiosa dopo il mille sono strettamente legate alle motivazioni ideali che
avevano dato vita alla grande abbazia borgognona. Fu la forte coscienza che si era formata di conseguenza di una unica
comunità dei credenti che indusse l’abate Odilone, uno dei grandi abati di Cluny, ad istituire la commemorazione liturgica di
tutti i fedeli defunti, il 2 di novembre.

Le problematiche derivanti dalla gestione dell’enorme patrimonio che si era creato e assai probabilmente, vogliamo dirlo,
l’enorme ricchezza accumulata che non poteva non essere fonte di bramosia, cominciarono a erodere la potenza di Cluny.
Contribuirono a questo anche gli errori di Ponzio, successore di Ugo, che si scontrò con il papa nella lotta per le investiture,
mentre la politica di Cluny era stata fino ad allora quella di promuovere gli interessi dei suoi monasteri e del suo tipo di
monachesimo, rimanendo volutamente in disparte ed evitando di schierarsi apertamente per o contro la chiesa di Roma,pur
continuando a collaborare con le forze laiche dominanti nel XI secolo, sopratutto con quelle che possedevano chiese e
monasteri privati, diritti ecclesiastici e decimali. Interviene a ritardare l’inizio della decadenza la figura di Pietro Venerabile,
Santo, l’ultimo dei grandi abati di Cluny. Affrontò molti dei problemi che si erano creati ed uno nuovo, forse il più
impegnativo. Il confronto, di natura spirituale, sostenuto con la nuova osservanza cistircense e sopratutto con il suo massimo
esponente, Bernardo da Chiaravalle, avente per natura l’interpretazione della Regola Benedettina, scontrandosi dunque con
l’altra grandiosa realtà del tempo: l’ordine cistircense, di cui parleremo.

La forza espansiva dei Cluniacensi, accompagnata – anche questo va detto – da una maggior avarizia e rapacità dei monaci –
trovava sempre maggiori ostacoli sia nelle decisioni dei pontefici e dei cardinali, chiamati a dirimere le sempre più numerose
diatribe, sia nell’opposizione delle forze ecclesiastiche di base, facenti capo ai poteri del vescovo e dei pievani. A rendere più
complessi i problemi, intervenivano le emergenti classi dirigenti dei Comuni.
Rimase qualcosa a Cluny, conseguenza della decisione di uno dei suoi primi grandi primi abati, Odilone, di avere istituito il
giorno 2 novembre come giorno della commemorazione dei fedeli defunti: le fondazioni Cluniacensi continuarono ad essere
ricercate come luoghi deputati alla memoria dei defunti ed all’intercessione per le anime dei peccatori. Per cui i monaci
dell’ordine, per quanto meno numerosi e potenti, continuarono a svolgere la loro funzione religiosa di pregare Dio per le
anime dei trapassati.

Mentre questo accadeva, la parte più sana del monachesimo, già nel XI e XII secolo, si era riappropriato degli ideali della vita
apostolica e dell’eremitismo, dando vita a nuove esperienze dettate dal desiderio di rinnovarsi
Nacquero i Certosini, votati ad una dura esperienza eremitica, mentre il desiderio di unire la vita attiva con la vita
contemplativa si identificò con i Camaldolesi e i Vallombrosiani; i Camaldolesi si diffusero in maniera sporadica, e molto più
tardi del periodo che ci interessa, in Piemonte, i Certosini, già verso la fine dell’ XI e sopratutto nel XII e XIII secolo, si
insediarono nelle valli dell’arco alpino in luoghi solitari ed isolati, nel Pinerolo e nel Saluzzese.
I Vallombrosani invece si diffusero in zone periferiche delle città come in San Bartolomeo a Novara e in Sant’Eusebio a
Cannobio sul lago Maggiore.

La vita apostolica, nell’interpretazione della Regola di Sant’Agostino, venne invocata come modello dai Canonici Regolari,
tra i quali i Premostatensi, mentre in Piemonte sopratutto la canonica di Santa Maria di Vezzolano si impegnò nel tentativo
di abbinare la vita claustrale con la vita attiva e la cura pastorale dei fedeli. Alla regola di Sant’Agostino si ispiravano anche
gli Ospedalieri, diffusi in Piemonte specialmente lungo le grandi vie di comunicazione, specializzati nella cura dei pellegrini
e degli ammalati.

Comunque, in tutto questo periodo, due furono i fenomeni più eclatanti: da un lato il movimento Cistercense che voleva
salvare e mantenere la regola benedettina e che sorse e si sviluppò ben prima che le abbazie benedettine andassero perdendo
la loro importanza, e che comunque subì, sia pure un secolo o due dopo, la medesima trasformazione, e l’assoluta novità degli
Ordini mendicanti dall’altro.
Inoltre, l’avventura delle Crociate aveva fatto sorgere gli ordini cavallereschi.

L’Ordine Cistercense (i monaci bianchi), i fratelli conversie l’abbazia di Lucedio

L’abbazia madre di Cîteau venne fondata da Roberto, esponente di una nobile famiglia della Champagne e già priore di
numerosi monasteri benedettini: dopo un’esperienza eremitica condotta nella foresta di Collan, nel 1075 fondò un monastero

benedettino riformato a Molesme, in Borgogna, e ne venne eletto abate. Poiché, nonostante le sue intenzioni, il monastero
divenne una ricca abbazia, con alle dipendenze una trentina di priorati, Roberto, deciso a mettere in pratica una stretta
osservanza della regola di san Benedetto, raccolse ventuno membri della comunità e il 21 marzo 1098, con l’approvazione del
legato pontificio Ugo di Romans e sotto la protezione del duca di Borgogna, diede inizio a una nuova comunità monastica a
Cîteaux (in latino Cistercium), nei pressi di Digione, dove il visconte Rainaldo di Beaune gli aveva donato una chiesa e dei
terreni.

Il movimento era destinato ad un prodigioso sviluppo grazie all’operato di San Bernardo di Chiaravalle. Il programma di tali
monaci mirava ad attuare un’osservanza la più letterale possibile della Regola di San Benedetto quanto all’austerità degli abiti
e del vitto, alla soppressione delle lunghe preghiere supplementari, alla semplicità degli edifici, alla eliminazione dei possessi
che i monaci non avrebbero potuto coltivare senza il ricorso alla mano d’opera estranea. A tale scopo, grande impulso
ricevette la categoria dei fratelli conversi che, come categoria di religiosi sotto la stretta disciplina del monastero, incaricati
degli affari economici, costituisce, nel suo pieno sviluppo, un aspetto caratteristico dell’Ordine, anche se non privo di
antecedenti di rilievo.

Nell’epoca di san Benedetto, la maggior parte dei monaci era costituita da laici; solo occasionalmente, i sacerdoti venivano
ordinati o ammessi, nella misura in cui lo richiedevano le necessità spirituali e liturgiche delle abbazie. Tutti i monaci
prendevano parte in egual misura all’indispensabile lavoro manuale e se, al tempo della messe, il lavoro era superiore alle
loro possibilità, venivano impiegati degli operai. Tuttavia, a partire dal nono secolo, le proprietà dei monasteri aumentavano
in dismisura, mentre i monaci, che all’epoca erano in gran parte sacerdoti, impegnati in varie attività missionarie e culturali,
non erano in grado di rispondere pienamente alle esigenze di lavoro manuale richiesto dai loro possedimenti.

I primi monasteri medioevali, compreso Cluny, accettarono, come soluzione, i sistemi feudali e assegnavano il lavoro agricolo alle
popolazioni rurali, rendendo così liberi i monaci di impiegare il loro tempo e le loro energie esclusivamente per le crescenti
attività liturgiche, pastorali, letterarie o educative. Tale soluzione, tuttavia, coinvolgeva profondamente i monasteri negli
affari mondani e puramente politici; di conseguenza, i movimenti di riforma del secolo XI, per quanto fossero incapaci di
modificare i principi fondamentali del sistema economico e della configurazione sociale, pieni di zelo per la solitudine e il
rigoroso ascetismo, tentarono almeno di far entrare in una certa disciplina monastica i loro aiutanti laici. Dopo il 1012, san
Romualdo a Camaldoli organizzò “servi laici”; seguito poi da altri; un’altra congregazione chiamò i proprio aiutanti laici,
“conversi”; l’idea ebbe un tale successo che tutti gli altri ordini o congregazioni riformate, fondate subito prima o dopo i
Cistercensi, adattarono tale istituzione in una o nell’altra forma.

I fratelli conversi cistercensi non rappresentavano dunque una innovazione del tutto rivoluzionaria, anche se nessun altro
Ordine impiegava i fratelli conversi su scala così grande e con tanta efficacia; una soluzione di questo genere divenne urgente
non appena Cîteaux cominciò a svilupparsi. Coltivare direttamente le loro terre era l’unica possibilità di scelta offerta ai
fondatori del “Nuovo Monastero”, i quali rifiutavano risolutamente lo sfruttamento tradizionale del feudalesimo nelle
proprietà monastiche e desideravano intensamente vivere nella solitudine. L’estensione delle loro campagne richiedeva
comunque la presenza di personale adeguato e proporzionato al lavoro agricolo. Di fatto l’elemento innovatore dell’economia
agricola dei cistercensi non fu l’adozione dei fratelli conversi, perché ricorrere ad essi costituiva soltanto una conseguenza di
una decisione molto più rivoluzionaria: il punto era che i monaci, seguendo la Regola di san Benedetto, si sentivano obbligati
a vivere del frutto del proprio lavoro manuale, col sudore della propria fronte, delle proprie terre. L’essere costretti i monaci a
fare anche un lavoro manuale secondo la versione dei fatti fornita da Orderico Vitale[19], costituiva uno dei punti più gravi di
disaccordo nel dibattito tra le due fazioni dei monaci di Molesme. Gli oppositori dell’abate Roberto sostenevano che “la
fatica e lo zelo nella lode di Dio” sostituiva validamente quel lavoro fisico che era stato abbandonato. In Francia, si era ormai
radicata la tradizione secondo la quale “i contadini badano, come loro s’addice, ai lavori agricoli, e i servi si occupano
dappertutto dei lavori servili. Invece i monaci, che, abbandonate le vanità del mondo, spontaneamente combattono per il Re
dei re, rimangano in pace entro le mura dei chiostri; scrutano nelle Sacre Scritture i segreti della legge divina”.

I fondatori di Cîteaux non considerarono il pensiero dei loro oppositori, anche se dopo alcuni anni di privazioni
straordinarie furono costretti ad ammettere che c’era del vero nelle argomentazioni sostenute dai monaci di Molesme. Cîteaux
non volle, ancora una volta, far ricorso all’aiuto di servi o di contadini, ma il reclutamento di fratelli laici divenne inevitabile.
Tale compromesso sembrava salvaguardare i principi di Cîteaux e nello stesso tempo assicurava le forze lavorative
necessarie per la sopravvivenza dei monaci; la decisione venne dunque presa come una soluzione pratica di fronte a un
problema concreto, senza fare riferimento alla teoria su ciò che doveva costituire il campo specifico dell’attività dei monaci.
Questi ultimi non si esimevano dal lavoro manuale, né i conversi sarebbero stati sfruttati soltanto come manovali; erano
trattati come religiosi, membri di una comunità monastica, e si differenziavano dai monaci di coro soltanto quando si trattava
di funzioni liturgiche e di alcuni aspetti legali dello stato canonico dei monaci, nelle elezioni degli abati e nell’adempimento
di altri incarichi importanti.

Coloro che volevano diventare fratelli conversi erano accettati per il noviziato di un anno. Dopo
l’anno di prova pronunciavano i voti, facendo promessa all’abate di obbedienza “fino alla morte”. Diventavano con questa
professione religiosi, a pieno diritto, pur non avendo voce né passiva né attiva nelle votazioni per gli ufficiali del monastero,
né avrebbero mai potuto diventare monaci di coro o sacerdoti. Anche il loro abito era diverso da quello dei monaci di coro,
essendo fatto di stoffa color grigio scuro o marrone.

Talvolta lavoravano perfino, come punizione, in abito secolare.
Oltre agli impegni previsti dall’orario quotidiano, uno dei lavori di maggiore importanza affidato ai fratelli conversi era
quello di costruire e di riparare gli edifici. Si recavano al mercato per vendere i prodotti che eccedevano il consumo interno e
per effettuare gli acquisti necessari; ci si serviva di loro come di messaggeri e accompagnavano gli abati nelle loro visite
ufficiali. In alcune circostanze, i fratelli conversi cistercensi erano responsabili, come questuanti, delle organizzazioni di
carità presso le corti regali, come succedeva alla fine del secolo XII in Inghilterra.
Il significato storico dell’istituzione dei fratelli conversi cistercensi, comunque, consiste nel fatto che, grazie
all’organizzazione della mano d’opera costituita da un numero senza precedenti di conversi, l’Ordine, almeno per un secolo,

ebbe un ruolo di primo piano nell’espansione agricola e favorì quel moltiplicarsi senza confronti delle fondazioni cistercensi
in tutta l’Europa. Anche se bisogna ritenere le cifre dell’epoca esagerate, resta vero che durante i secoli XII e XIII molte
abbazie misero a frutto le vaste terre che possedevano con l’aiuto di diverse centinaia di fratelli conversi. In molti di questi
casi il numero dei conversi superava quello dei coristi secondo una proporzione da 2 a 1, o perfino da 3 a 1.
Tra le principali abbazie cistercensi, per restare dalle nostre parti, è da citare quella di Santa Maria di Lucedio, nel Vercellese.
Una straordinaria diffusione nel XIII secolo ebbero anche i monasteri cistercensi femminili, alcuni dei quali erano stati in
precedenza monasteri di benedettine.

L’Abbazia di Lucedio è locata in Trino Vercellese.

La campagna intorno a Trino e a Vercelli era, nel XII secolo, in gran parte incolta, con foreste ed ampie zone paludose. Una
delle regole dei monaci cistercensi era quella che imponeva la fondazione dei monasteri in luoghi deserti o comunque in
presenza di terreni bisognosi di essere bonificati o messi a cultura. Affidare un territorio ai Cistercensi significava pertanto
compiere un investimento non solo economico ma anche politico perchè si esercitava, attraverso l’abbazia una forte influenza
sulla popolazione. La stessa motivazione, del resto, aveva provocato la fondazione delle precedenti abbazie benedettine nelle
Marche carolinge., a guardia e difesa dei confini.

Il territorio a nord di Trino, quasi a ridosso del Po, fu donato ai Cistercensi dal marchese Rainero del Monferrato con
l’evidente scopo di poter meglio controllare una strategica zona di confine con il sempre più potente Comune di Vercelli. I
monaci incanalarono i vicini corsi d’acqua e dissodarono la brughiera coltivando il riso e diffondendo la risicoltura in tutto il
Vercellese: Il riso veniva usato inizialmente come spezia, e poi sostituì il grano, molto più raro in quel periodo e sopratutto
molto meno a buon mercato.

L’abbazia fu fondata presumibilmente nel 1123 ad opera di alcuni monaci provenienti dal monastero di La Fertè in Borgogna.
E’ dunque una abbazia dei monaci cistercensi.
Venne eretta come struttura fortificata ed assunse la denominazione di “Santa Maria di Lucedio” nome che significa “Luce di
Dio” o, forse, “Dio di Luce” ovvero “Lucifero”.

Il patrimonio di cui era dotata era enorme, e si estese nei secoli fino al XIV. Il sistema di gestione adottato era comune
all’intero ordine dei cistercensi e si basava sulla suddivisione dei possedimenti del monastero in grange.[20] A capo di
ciascuna di queste non era posto un monaco – gravato da impegni di ordine spirituale – ma un fratello converso, il cui
compito era di far fruttare la grangia. I conversi, che coordinavano a loro volta il lavoro di liberi contadini salariati (chiamati
mercenari), rispondevano delle loro attività al cellerario, monaco che curava per conto dell’abate l’amministrazione della
grange.Il monastero poi cessò di dipendere, dopo la metà del 1450, direttamente dall’ordine e divenne commendario, ed alla
fine del 1700 cadde nei decreti napoleonici di soppressione degli ordini di religione. La proprietà venne divisa in lotti e quello
con il complesso abbaziale fini sotto il controllo del duca genovese Raffaele de Ferrari di Galliera, al quale i Savoia
conferirono il diritto di fregiarsi del titolo di Principe. Nacque così il cosiddetto “Principato di Lucedio”, denominazione che
appare tuttora sul portale d’ingresso della tenuta., attualmente di proprietà privata.

Il Principato di Lucedio con la cinta muraria che lo racchiude, si presenta oggi come una grande e moderna azienda agricola.
Dell’antico monastero medioevale si sono conservate notevole strutture architettoniche: l’inconsueto campanile a pianta
ottagonale, poggiato su una preesistente base quadrata; la bellissima aurea capitolare (metà del XIII secolo) con colonne in
pietra e capitelli di foggia alto-medioevale; la suggestiva sala dei conversi con slanciate volte a vela che poggiano su basse
colonne. L’atmosfera medioevale che si respira, sopratutto, nell’area capitolare sta verosimilmente alla base delle numerose
leggende ambientate in questa abbazia. Le leggende parlano di cripte segrete, di salme mummificate, di abati seduti su troni
disposti a cerchio, di fiumi sotterranei e di una colonna che “piange” a causa degli orrori di cui sarebbe stata testimone.
Altre leggende non sono ambientate nell’abbazia ma presso il vicinissimo cimitero di Darola e nella vicina chiesetta della
Madonna delle Vigne; naturalmente il crederci, e in che misura, o il rimanerne impressionati dipende da ciascuno di noi, ma
devo ammettere che l’ambiente del cimitero abbandonato è decisamente inquietante e la visione della piccola chiesa ricolma
di segnali diabolici, i soliti, croci capovolte e numeri 666 a me ha stretto il cuore se non altro di malinconia,.

La tradizione monastica in crisi. Gli abati commendari e la ricerca di esperienze nuove.

Il monachesimo benedettino, che nel periodo compreso tra il X e il XII secolo era stato dunque protagonista su scala europea
di una straordinaria rinascita religiosa e culturale, a partire dal XIII secolo si cristallizzò, trovandosi immobilizzato in un
sistema economico e giuridico uscito dallo stesso mondo che sin dall’inizio e per molto tempo lo aveva protetto ma che nel
frattempo era cambiato.
Quindi, legati agli schemi della vita agricola e dell’economia terriera ed emarginati rispetto al più ampio contesto europeo,
i Benedettini finirono, nel corso del Duecento e oltre, per rinchiudersi nella religione di origine, sotto il controllo di nuovi
centri di potere locali e regionali.

Il deterioramento di questa grande tradizione iniziò intorno al 1250 con l’esplodere, quasi improvviso, di una grave crisi
economica e finanziaria che colpì quasi tutte le abbazie.
Il modo mediante cui i monaci amministravano il loro vasto patrimonio si rivelò incapace di misurarsi con l’affermazione
dell’economia di mercato e i cambiamenti che questa provocò nell’economia rurale ed urbana. Il denaro liquido scarseggiava
e i monaci furono costretti a ricorrere a prestiti usurari. Anche la sensibilità religiosa dei fedeli mutò, mentre le donazioni e i
legati testamentari diminuirono a vantaggio di altre istituzioni religiose. A queste difficoltà ed all’intrecciarsi di forti tensioni
sociali si accompagnò il progressivo affievolirsi dell’antica disciplina monastica e la diminuzione delle vocazioni alla vita
religiosa.

Lo scadimento della disciplina e la gestione deficitaria del patrimonio fondiario furono le cause immediate per cui le grandi
abbazie della seconda metà del XIV secolo, come nel caso di San Michele della Chiusa , e specialmente nel XV e XVI
secolo, vennero concesse in beneficio o in commenda dal papa a laici ed ecclesiastici, principi secolari , vescovi e cardinali,
con il compito diamministrare i beni e di goderne i frutti. In tal modo gli abati, che un tempo vivevano con la comunità dei monaci,
controllando e spronando l’osservanza della vita religiosa, vennero sostituiti dagli abati commendari, che governavano
l’abbazia facendosi rappresentare da vicari, impossessandosi delle rendite e accumulando a proprio profitto benefici su
benefici.

Ancor prima che tutto ciò accadesse, nel XII secolo si moltiplicarono le comunità di persone solitarie slegate da qualsiasi
istituzione, che praticavano un dialogo diretto con Dio e imitavano Cristo con la vita solitaria e resistendo nel deserto alle
tentazioni di Satana. Questa prima manifestazione di vita eremitica sarebbe sfociata, agli inizi del secolo successivo, nel
movimento degli ordini mendicanti, Francescani e Domenicani., ma diede anche origine ad un romanico rurale[21],
caratterizzato da chiese piccole ad una sola navata, con abside semicircolare e decorazione molto sobria, situate molte volte in
luoghi poco accessibili. Queste chiese furono costruite sopratutto nel XII e XIII secolo, in contrapposto alle grandi cattedrali.
Ma la vera novità, nascerà da un problema che era la fonte di molti guai degli ordini monastici esistenti: quello della
ricchezza, con tutto quello che inevitabilmente di problematico la ricchezza portava con sé.

Verso l’inizio del 1200 nasceranno a contrastarla ordini del tutto nuovi, quelli dei mendicanti. I francescani e di domenicani,
la cui vita durerà ben oltre i limiti temporali che ci siamo imposti. Ed è tuttora presente.
Un capitolo, che personalmente considero molto affascinante, di questa storia è comunque finito.

[1]Nel linguaggio comune parliamo di sacerdoti. In realtà Le parole sacerdote e presbitero (che originariamente significa anziano) non sono
equipollenti. Il sacerdote è incaricato di dare culto al Signore, e sotto questo aspetto tutti i cristiani, col battesimo, diventano sacerdoti. I presbiteri, invece, sono i collaboratori dei Vescovi nel loro triplice incarico di insegnare, di santificare e di governare le anime; e siccome il principale di questi compiti è quello di santificare le anime ed esso si esprime nel culto e nella celebrazione dei sacramenti, i presbiteri sono anche sacerdoti, ma la denominazione esatta è quella di presbiteri.

[2]Il terzo, nell’ordine, dopo i vescovi e i presbiteri ha compiti ausiliari: può amministrare solennemente il battesimo, conservare e distribuire
l’eucarestia, assistere e benedire il matrimonio in nome della Chiesa, portare il viatico ai moribondi, leggere la Sacra Scrittura ai fedeli, istruire ed esortare il popolo, presiedere al culto ed alla preghiera dei fedeli; devono essere attivi, misericordiosi e camminare secondo la verità del Signore.

[3]“Monaci e religiosi nel Medioevo” Marcel Pacaut – Editrice Il Mulino – 1996

[4]Monaci e religiosi nel Medioevo – vedi nota 2

[5] mentre i presbiteri diocesani vivevano in prossimità della cattedrale vescovile o delle chiese più importanti. La parrocchia, quale parte delle
diocesi affidata alla cura di un singolo sacerdote, nacque solo alla fine del X secolo.

[6]Per quanto il numero di dodici sia facilmente riferibile a quello dei dodici apostoli di Gesù, e la tradizione ebraica non sia certamente riconducibile alla cultura della Grecia antica, il numero di dodici sembra essere risultato imprescindibile anche per gli antichi greci. Dodici erano infatti gli dei
maggiori dell’Olimpo, tanto che per consentire ad Afrodite di farne parte, era stato escluso – secondo il mito – Ade, dio degli inferi, che pertanto era stato relegato nel suo regno sotterraneo. Dodici anche erano i Cavalieri della Tavola Rotonda.

[7]La grande storia del Piemonte – vol. I° – Editoriale Bonechi – 1999

[8]Il grande libro dei Santi – Diz. Enciclopedico Sa Paolo – 1998

[9]“ i Regni Cristiani e le Crociate” – Storica National Geographic -luglio 2018 – n.38

[10]La grande storia del Piemonte – vol. I°- Editoriale Bonechi – 1999

[11]“La grande storia del Piemonte” – vol .I° – editoriale Bonechi – 1990

[12]Il nero è un colore fondamentale, e nella religione indica la penitenza e il lutto, a partire dal XII secolo, anche se in Francia il cordoglio è
manifestato indossando panni bianchi, come avverrà per l’ordine cistircense. In effetti bianco e nero, pur essendo agli antipodi, condividono il fatto di essere “non colori” e quindi taluni significati possono trasferirsi facilmente dall’uno all’altro. I Benedettini scelgono il nero come simbolo di rinuncia alle ricchezze ed ai piaceri del mondo. Ma il nero è anche un colore difficile da ottenere; non quello slavato delle classi inferiori, ma quello intenso che si mantiene vivido: Il migliore era in quei tempi il morellato, un nero lucido ottenuto dal gallato di ferro, secondo un procedimento segreto inventato dai fiorentini,. Tale colore, indossato dai nobili votati al sevizio del Re, assume il significato di rinuncia alla propria personalità, per calarsi completamente nelle proprie funzioni, a servizio di una causa superiore.

[13]Monaci e Religiosi nel Medioevo – Il Mulino Marcel Pacaut – Edizione 1970

[14]La Riforma Cluniacense – relatore Renato Gianolio

[15]I priorati cluniacensi in Italia durante l’età comunale (secoli XI-XIII) – Giancarlo Andenna internet

[16]Speciale Storica – National Geographic – “I Regni Cristiani e le Crociate – numero 38 – luglio 2018

[17] Due tipi di oblazione: a) Quella degli oblati regolari: cioè di fedeli, celibi o vedovi, che vivono in monastero con i monaci, senza i voti monastici, ma con un’oblazione che li impegna a vivere in castità, sotto l’obbedienza dell’abate e con un uso regolato dei propri beni, secondo uno statuto particolare, approvato dall’autorità monastica.

b) Quella degli oblati consacrati. Tra gli oblati secolari vi possono essere alcuni, non coniugati o vedovi, che, pur restando nel mondo, sentono la
chiamata a una vita di particolare consacrazione; emettono il voto privato di castità e le promesse di povertà, di obbedienza e di conversione dei
costumi, nello spirito della Regola di san Benedetto. Gli oblati benedettini sperimentano nel monastero cui sono aggregati le disposizioni e le proposte spirituali e sacre, ma non vivono in alcun modo come membri dell’ordine a tempo indeterminato o con una qualche responsabilità

[18]Con la parola “cabreo” si indicava in origina la raccolta fatta redigere da Alfonso XI (1311-1350) che enumerava i privilegi e le prerogative nella
monarchia della Castiglia medioevale. In seguito, si dette tale denominazione agli inventari dei beni delle grandi amministrazioni ecclesiastiche o signorili. Dovevano essere rinnovati ogni 25 anni.

[19]Cronista inglese, scrisse dal 1120 al 1142 una grande Historia Ecclesiastica in 13 libri, che è la principale fonte per la storia dei suoi tempi.

[20]

[21]I regni cristiani e le crociate – Storica National Geographic – n.38 – luglio

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