La Creazione, mito mesopotamico

Sumeri e Assiro-babilonesi

Quando si parla di Cosmogonia e di religione mesopotamica si fa riferimento a quell’insieme di teologie, miti e credenze professate nell’Antica Mesopotamia, ovvero nella regione del mondo corrispondente approssimativamente all’attuale Iraq, la terra tra i due fiumi (il Tigri e l’’Eufrate). Le origini di tale religioni vanno individuate nella preistoria delle prime genti abitanti in quelle regioni che si svilupparono poi a partire dal 3.500 a.C. nelle civiltà sumerico-accadica, babilonese e assira.

Mare Primordiale

Il mito cosmogonico Sumero

Per i Sumeri l’universo non aveva limiti, né nel tempo né nello spazio, ma era eterno ed infinito. Essi lo chiamavano il Mare Primordiale; in un indefinito punto di esso era sospesa una sfera divisa nettamente in due parti. Quella superiore era il cielo, chiamato AN, sul quale si muovevano tutti gli astri. La parte inferiore della semisfera era il mondo sotterraneo, che non si poteva vedere, e nel quale erano collocati gli inferi, KUR.
Tra le due semisfere vi era un disco piatto, la Terra, chiamata KI. La Terra galleggiava su un disco più grande, chiamato APSU, da cui si alimentavano tutte le fonti della terra, che era composto da acqua dolce e circondato da un oceano immenso e da alte montagne.
La genesi dell’universo dei Sumeri pone all’inizio del tempo solo il Mare Primordiale, rappresentato dalla dea madre NAMMU; da essa presero origine AN e KI, strettamente uniti in un’unica sostanza, chiamata la Montagna Cosmica, dalla quale ebbero origine gli ANNUNAKI, gli dei principali, che rappresentavano le varie forze della natura ma anche gli attrezzi di uso quotidiano. I Sumeri ritenevano inoltre che i movimenti dei corpi celesti, in modo particolare del sole,
rivelavano che il disco piatto della terra era limitato in estensione. Ogni notte il sole calava sull’orizzonte occidentale e il mattino seguente si alzava da quello orientale: era chiaro che durante la notte andava a finire sotto la terra, così come faceva la luna in determinati periodi.

Sigillo con Divinità dei Sumeri

Il mito cosmogonico assiro-babilonese

I Babilonesi recuperarono le idee dei Sumeri dell’universo a livelli, ma elaborarono un’altra idea importante, quella della lotta e della vittoria delle potenze della luce su quelle delle tenebre.
L’ Enūma Eliš è il poema teogonico e cosmogonico appartenente alla tradizione religiosa babilonese che tratta in particolar modo del mito della creazione, della teomachia e delle imprese del dio Marduk, divinità di Babilonia. Il poema era cantato in alcune occasioni e fu registrato su sette tavolette di argilla, recuperate, tranne la V, nella Biblioteca di Ninive. Il poema risalente al periodo di Nabucodonosor (XII sec.a.C.) prende il nome dall’inizio della Tavoletta I.

Mappa del cosmo

 

 

 

 

Apsu

«Quando (enu) in alto (eliš) il Cielo non aveva ancora un nome,
E la Terra, in basso, non era ancora stata chiamata con il suo nome,
Nulla esisteva eccetto Apsû, l’antico, il loro creatore,
E la creatrice-Tiāmat, la madre di loro tutti,
Le loro acque si mescolarono insieme
E i prati non erano ancora formati, né i canneti esistevano;
Quando nessuno degli Dei era ancora manifesto.
Nessuno aveva un nome e i loro destini erano incerti.
Allora, in mezzo a loro presero forma gli Dei.»

Il mito babilonese della creazione (Enuma elish) è infatti completamente diverso da quello sumero: la calma, la linearità, la semplicità del modello dei Sumeri si contrappongono nettamente alla nascita dell’universo babilonese, fin dall’inizio caratterizzato da scontri sanguinosi.
Nel mito babilonese Marduk, il dio ordinatore del mondo, vinse ed uccise Tiamat, il dio delle tenebre e del caos, e dal suo corpo spaccato in due ebbe origine sia la calotta del cielo, nella quale furono fissati i percorsi del Sole, della Luna e delle stelle, che quella della terra. Marduk creò inoltre le “stazioni” degli dei, dei quali le stelle erano immagine e rappresentazione ; determinò l’anno e, per ognuno dei dodici mesi, fissò tre stelle, quindi stabilì il tempo attraverso le costellazioni. Il mutare delle costellazioni era visto come un mezzo necessario per il mantenimento dei contatti tra il cielo e la terra: l’osservare il cielo era perciò un continuo dialogo tra dei e uomini.

Tiamat

Fonti

Le credenze cosmografiche di Sumeri, Accadi, Assiri e Babilonesi sulla struttura fisica dell’universo nella sua totalità (cieli, terra e mondo sotterraneo) compaiono implicitamente in una grande varietà di testi, scritti su un arco di circa 2500 anni e appartenenti ai più diversi generi letterari: racconti cosmogonici sumeri e accadici, viaggi in cielo in testi epici accadici (Etana, Adapa, Nergal e Ereshkigal), descrizioni astronomiche del cielo stellato incantesimi in lingua sumera ecc.
Questi testi sono sostanzialmente concordi nelle linee generali, anche se, purtroppo, resta difficile estrapolare una cosmografia razionale da testi scritti con altre finalità o almeno comprendere se le affermazioni cosmologiche erano intese come tali o soltanto in senso metaforico o mistico[2].

Vi sono, inoltre, aspetti importanti della descrizione fisica che non compaiono nemmeno indirettamente in alcun documento. Come fossero collegati i sei piani (fra i quali tuttavia era possibile salire o scendere) e cosa vi fosse sotto il piano più profondo o sopra quello più elevato non è detto e forse non interessava i Sumeri. Occorre inoltre tenere in conto che nel corso dei millenni ebbe luogo una progressiva evoluzione delle idee.

Di particolare interesse due tavolette neo-assire contenenti materiale testuale della seconda metà del secondo millennio, che articolano l’universo come un edificio a sei piani. Tre piani descrivono i cieli e altri tre la terra, in quanto corrispondono alla superficie terrestre e a due livelli sotterranei. Si osservi che nel testo di alcuni incantesimi in lingua sumera si invocano “i sette cieli” e “le sette terre”: dovrebbe però trattarsi semplicemente di una tipica fraseologia mesopotamica per indicare il cielo e la terra nella loro pienezza e totalità, in accordo col valore simbolico allora assegnato al numero sette. L’idea di un cielo a sette livelli ricomparve più tardi in scritti giudaici non canonici.
Anche il colore azzurro della barriera che separa il mondo invisibile degli dei mesopotamici dalla parte del cielo esposto alla nostra vista fornisce il linguaggio simbolico utilizzato anche dalla Bibbia per caratterizzare la visione di Yahweh nell’alto dei cieli. Ad esempio nel libro dell’Esodo, Mos dopo essere salito sul Monte Sinai accede alla vsione del trono divino; esso sovrasta uno strato di pietra blu, tradotta come zaffiro o lapislazzuli (Es.24,10). Analoghe vision ha il profeta Ezechiele.

Sigillo da Ur

Condividi