Storia del miracoloso Crocifisso nella chiesa di San Giovanni Battista a Piglio

Dalle notizie raccolte da don Marcello Coretti, parroco di Piglio dal 2000 al 2009, si evince che l’anno 1685 segna un avvenimento particolarmente significativo, nella chiesa di san Giovanni.
Nell’Ottava di Pasqua del 1685 a Piglio fu destinato come guardiano il p. Maurizio da Brandeglio, toscano di Lucca, il quale volle trovare per i Pigliesi una devozione che simboleggiasse tutta intera la dottrina da predicare.
Il merito di P. Maurizio fu quello di aver intuito nel passaggio di fratel Angelo da Aprigliano il segno della Provvidenza.
Era questi un semplice e santo religioso originario della Provincia Riformata calabrese dei Sette Martiri (Cosenza); ed era uno di quei “crocefissari” che fiorirono nel ‘600 nei conventi francescani soprattutto dell’Italia centro-meridionale e che si specializzarono nell‘arte di suscitare “lacrime purificatrici di penitenza” mediante la scultura nel legno di Gesù in croce.
Il culto di Cristo crocifisso era peraltro peculiare dei Frati Minori, che lo proponevano in ogni loro chiesa sia in ricordo delle stimmate di Francesco, sia perché in quella devozione riconoscevano una delle principali vie di conversione.
Frate Angelo era compagno e collaboratore di fra Stefano da Piazza Armerina e con lui giunse al convento di Piglio verso maggio del 1685; avevano scolpito due crocifissi, uno per il convento di Vicovaro e uno (con la Maddalena ai piedi della Croce) per quello di Subiaco.
Terminato il detto lavoro, erano in viaggio di trasferimento a piedi verso il convento di Carpineto, dove ne era stato loro commissionato un altro per la fine di quello stesso anno.
La loro breve permanenza a S. Giovanni stimolò nel guardiano P. Maurizio il desiderio di avere un crocifisso anche per la sua chiesa, tanto da farne richiesta direttamente a frate Angelo.
Fino ad allora questi aveva sempre e solo aiutato il suo maestro e mai aveva portato a termine una statua da solo; si mostrò perciò perplesso di fronte alla richiesta del P. Maurizio, tanto più che fratel Stefano non voleva separarsi dal suo aiutante, per nessuna ragione, conoscendo le sue doti, sia artistiche che religiose. Intervenne però il padre Provinciale, Carlo Francesco da Varese, ordinando a frate Angelo di fare il crocifisso per il Piglio senza altre preoccupazioni.
Da Carpineto, dove intanto era andato, tornò dunque l’umile fraticello al convento di S. Giovanni e col P. Maurizio si portò nel vicino bosco comunale delle Cese, sulla montagna verso la terra di Acuto, per scegliere l’albero adatto all’opera.
Ne vide uno bellissimo proprio all’entrata del bosco, ma non volendo rischiare di trovarlo poi corroso all’interno, andò avanti per vedere se ce n’era un altro migliore; non lo trovò benché si fosse aggirato per tutto il bosco, per cui tornò a prendere il primo e, col permesso delle autorità municipali, lo trasportò in convento.
Tagliò il tronco, che all’interno non era affatto “macagnato”, lo sbozzò e quindi lasciò il legno a stagionare; poté intanto ripartire per Carpineto ed aiutare fratel Stefano a completare il Crocifisso e una Addolorata, bellissimi, per quel convento.
Dopo quattro o cinque mesi, ritenendo che la stagionatura del suo tronco fosse completata, tornò a Piglio per dare inizio al “suo” Crocifisso; era la fine di febbraio dell’anno 1686, undicesimo del pontificato di Innocenzo XI e secondo del provincialato del p. Carlo Francesco da Varese: era appena iniziato il tempo di Quaresima.
Fratel Angelo da Aprigliano, “religioso bonissimo e di vita esemplare”, si accinse all’opera “armato più colla scienza spirituale che dell’arte umana”.
 Si fece assegnare una cella adatta al suo lavoro, che tenne chiusa finché il crocifisso non fu terminato: e mentre lavorava vi si chiudeva dentro ed usciva solo per andare in coro o in refettorio.
Lavorava “più col meditare la passione del Signore che con l’incidere il legno con lo scalpello”. Iniziò col modellare la sacra Testa, alla quale si dedicava di solito i venerdì ed in quei giorni non usciva nemmeno per mangiare coi confratelli, ma restava in camera solo a pane e acqua, anzi nei venerdì di marzo e nel tempo di passione non lasciava mai il laboratorio, tutto assorto com’era nel modellare i lineamenti del volto di Gesù e le parti più difficili del corpo, “aiutato forse dalla viva rimembranza di Cristo stesso pendente dalla croce”.
Quando ebbe finito la testa, l’artista apparve più allegro e felice del solito perché gli era riuscita come desiderava e come pregando immaginava che fosse quella di Gesù crocifisso, tanto che volle farla vedere al p. Maurizio; questi gli disse che era bella, ma che non si poteva sapere se era davvero simile a quella di Cristo.
“A me pare simile”, replicò lo scultore, che la ripose e subito passò ad intagliare e a modellare, con tutte le precauzioni, il resto del corpo; finito questo, gli unì la testa e fissò il tutto con i chiodi al legno della croce.
Allora frate Angelo non si stancava di ammirare la sua opera e cercava di osservarla “più con gli occhi della mente che con quelli del corpo, per vedere se la figura si confrontava col figuratato”.
Quando poi fu il momento di dargli il colore, faticò non poco badando moltissimo che la tonalità fosse la più appropriata, facendo “le ferite, le scorticature e lividure nei luoghi principali dove egli colla meditazione si figurava essere state fatte nel corpo del Redentore”; ma per non farlo sembrare sformato e perché non emanasse orrore anziché devozione, evitò di disegnarne molte altre “conforme si presuppone fosse lacerato il corpo del benedetto Cristo”, nel quale “a planta usque ad verticem non erat in eo sanitas” (“era tutto piagato dalla pianta dei piedi al capo”).
Ma proprio quando frate Angelo stava per iniziare la coloritura, un’inattesa novità venne a turbare la sua tranquillità interiore: il p. Maurizio di Brandeglio fu trasferito e l’artista temeva che il nuovo guardiano potesse negargli il necessario per completare la sua opera.
Prima di lasciare Piglio tuttavia p. Maurizio gli comprò tutto quanto gli serviva e fratel Angelo poté felicemente concludere la sua fatica, aggiungendo al Crocifisso anche alcuni angeli: tutto il lavoro era durato circa due mesi e mezzo, considerando che era iniziato a fine febbraio, che nella Settimana Santa era terminata la scultura del Legno e che poco dopo Pasqua (14 aprile) la statua venne colorata.
Il 4 giugno 1686,
solennità di Pentecoste, un enorme concorso di popolo era presente all’inaugurazione della effigie sacra e alla sua collocazione sull’altare della seconda cappella della chiesa, fino ad allora dedicata alla Madonna del Carmelo; assieme al clero e alle autorità civili di Piglio e ai francescani (c’erano il nuovo guardiano di S. Giovanni p. Bernardino da Vico Garganico, il suo predecessore p. Maurizio Lucchese, il Provinciale p. Carlo Francesco da Varese e lo scultore frate Angelo, festeggiatissimo) si calcolò una partecipazione di più di 6000 persone venute in gran parte dai paesi vicini, folla che la chiesa conventuale ovviamente non poteva contenere.
Perciò si occupò anche buona parte della piazza (Particolare del Crocifisso di Fra’ Angelo) antistante alzando delle grandi tende, allestendovi sotto un “sontuoso” altare e collocandovi sopra il Crocifisso con bell’effetto scenico: tutti poterono così adorarlo con devozione, cominciando ad amarlo e ad invocarlo nelle loro difficoltà. Il nuovo guardiano p. Bernardino “non mediocre predicatore e dotato di una fervorosa energia nell’inveire contro i peccatori”, tenne pure un bellissimo sermone ai fedeli dal pulpito dove era stata sistemata la sacra immagine.
In quello stesso giorno fu anche decretata la festa annuale del Crocifisso al 14 settembre, ricorrenza liturgica dell’Esaltazione della Santa Croce; festa che ben presto divenne tra le più care dei pigliesi, insieme a quella della Madonna delle Rose, del Beato Andrea Conti e del patrono S. Lorenzo martire.
A partire da quel giorno memorabile del 1686, il Crocifisso cominciò ad apparire a più persone che con fede viva si raccomandavano alle sue grazie, guarendo malati e risanando storpi e altri “da diverse infermità travagliati”: in tutta la regione dunque si cominciò a ritenerlo miracoloso.
E se non restavano ex-voto a testimonianza di quei primi prodigi fu sia perché quei fedeli erano troppo poveri per pagarli, sia perché non c’erano in quelle circostanze pittori che li potessero raffigurare: nei primi due mesi di culto furono comunque offerti al Crocifisso tre anelli d’oro.
In considerazione della devozione e del concorso dei pellegrini all’immagine del Crocifisso di Piglio, papa Innocenzo XI (1676-89) volle solennizzare ulteriormente la festa; prima concesse l’indulgenza plenaria ai fedeli che vi si adunavano il 14 settembre, poi con Breve del 6 agosto 1689 benignamente dichiarò privilegiato il suo altare per tutta l’Ottava dei Morti e ogni venerdì dell’anno per 7 anni a favore delle Anime del Purgatorio.
La venerazione verso il Crocifisso di S. Giovanni, considerato miracoloso da tutto il circondario, richiamava al convento di Piglio un continuo flusso di devoti desiderosi di vederlo, di toccarlo, di prendere un poco dell’olio della sua lampada per ungere i loro malati, di ringraziarlo per i benefici ricevuti; perciò nella cappella che lo ospitava si accumulavano oggetti votivi e stampelle e altri ricordi di grazie ricevute.
Un altro esempio della sua fama si ebbe il 27 aprile 1692 quando, in risposta a una supplica del guardiano di S. Giovanni, il vescovo di Anagni Bernardino Masseri ordinò che ai devoti del SS.mo Crocifisso che andavano in processione a Piglio dai paesi circostanti, soprattutto da Paliano, non si impedisse in alcun modo di innalzare la croce durante il corteo.
In ogni epoca, nelle circostanze più critiche di privati o dell’intera comunità, o perché la siccità o la grandine minacciavano i raccolti, o in caso di epidemie mortali per il popolo, tutto il paese ricorrerà fiducioso al Crocifisso memore dei suoi prodigi: anzi col tempo l’immagine sacra diventerà più famosa dello stesso convento, tanto che in alcune carte topografiche anche moderne quest’ultimo non è indicato come S. Giovanni Battista, ma come “Il Crocifisso”.
Sul libro di amministrazione della Compagnia del Santissimo Sacramento e della chiesa di S. Antonio Abate leggiamo che nel 1808 venne registrata una spesa data ad un pittore per avere fatti tre paliotti a tre altari di S. Antonio Abate, Crocifisso ed alla Madonna SS.ma della Valle.
Il 6 febbraio 1815 si registrò una spesa per lavoro eseguito da Tommaso Ricci, falegname, “per aver fatto un Palliotto, e Telaretti corrispondenti all’altare in oggi del SS.mo Crocifisso così concordati col Sig.re Arciprete Marsili”.
In una lettera indirizzata nel 1815 a Luca Amici, vescovo di Ferentino e amministratore di Anagni, con la quale si chiese il rimborso per spese sostenute per lavori eseguiti nella chiesa di S. Maria, leggiamo:
Trasportati solennemente nella Chiesa Matrice del Piglio da vicini conventi di S. Lorenzo, e di S. Giovanni i SS. Corpi del B. Andrea Conti, e di S. Prudenzio Martire, ed il miracoloso Crocifisso l’anno 1811 = ; il Sacerdote Giuseppe M.ª Tuffi O.re U.mo di V.S. Ill.ma, e R.ma fù incaricato dal Vescovo [Gioacchino Tosi] di darvi una decente situazione al più presto possibile, come rilevasi dalla lettera originale, che si umilia = ….. = Bramoso l’O.re di corrispondere in qualche modo dè SS. Depositi, e del Prelato, che lo incaricava, pose tantosto mano all’opera, e benchè sprovvisto di materiali, e d’ogni provvision di danaro, riuscì prima a situar ogni cosa provvisoriamente, ma con decenza, poi ad erigere un nuovo altare di stucco elegantissimo con balaustra, e tutt’altro, così che poté incontrar la comune soddisfazione, e far dire all’Arciprete della Chiesa, che l’artefice meritava anche più della convenuta mercede. ….
A compier l’opera fu necessario rifare un quadro in tela di S. Stefano, che già …(!) cancellato in avanti finì di perire pel nuovo altare; bisognò sfondare una Cappella per situarvi il SS.mo Crocifisso, far lavorare un Ovatino di S. Luigi, e tant’e altre cose”.
Lo scrivente attesta che “in parte già era stato rimborsato con le raccolte di denaro che si era solito fare nelle feste del Beato Andrea, di S. Giuseppe e del SS.mo Crocifisso. Il Vescovo ordinò che si rimborsasse anche con la raccolta che si faceva in onore di S. Prudenzio M..”
A Piglio il primo caso di colera si registrò il 12 ottobre 1855ai primi di novembre il centro abitato era già tutto interessato.
Il massimo dei colpiti e dei morti si ebbe nella settimana dal 23 al 28 novembre, quando si contarono anche 8—9 decessi al giorno; il 9 dicembre il contagio era cessato.
In quei due mesi ogni famiglia ebbe il suo morto: su circa 3500 abitanti del paese si ebbero 194 casi di colera e 73 morti, 63 dei quali adulti e 10 fanciulli.
A un certo punto il popolo, vistosi perduto, “si applicò a santi mezzi onde placare la giustamente sdegnata maestà divina”; mai i Sacramenti furono tanto frequentati, nemmeno durante le più riuscite Missioni popolari: le chiese del Piglio erano sempre piene di gente dal volto abbattuto e atterrito che giorno e notte invocava i suoi santi: gruppi numerosi di devoti, lasciando ogni faccenda, di notte con torce a vento, con qualsiasi tempo, camminando e pregando si recarono ai santuari più venerati del paese: dal beato Andrea sotto lo Scalambra, alla Madonna del Monte (due miglia più su verso gli Altipiani, a quasi mille metri di altitudine)al SS.mo Crocifisso di San Giovanni.
Nella terza decade di novembre i frati di S. Giovanni avevano di propria iniziativa celebrato un triduo di suppliche al Crocifisso, cui aveva partecipato una folla enorme, capace di restare due ore in ginocchio a pregare, cantare o invocare la grazia con voce flebile e serena. Per due sere uno dei Sacerdoti del Convento aveva partecipato in cotta e stola e con fervorosi discorsi aveva incoraggiato il popolo a ricorrere al miracoloso Salvatore.
Sperando nel soccorso divino, la gente invitò il Priore Comunale Luigi Corbi e il Vicario Foraneo don Ferdinando Fantini a chiedere ai frati il permesso di portare solennemente il Crocifisso su in paese, nella Collegiata.
Don Ferdinando, con la delega anche del Priore e del Preposto don Bonacci, andò al convento di S. Giovanni verso mezzogiorno di mercoledì 28 novembre e presentò la richiesta al guardiano p. Benedetto da Valmontone,“a motivo di ottenere dal misericordiosissimo Dio la liberazione dal Colera”.
Il religioso invitò il sacerdote a pranzo, a tavola informò il suo Vicario del motivo di quella visita e accondiscese alla richiesta, per cui la sera stessa il Capitolo di S. Maria, i frati del convento e gran parte dei pigliesi, “con solenne e devota processione di Penitenza”, portarono il Crocifisso in paese e lo alzarono sull’altare maggiore della Collegiata; quindi invitarono a predicare il padre Lettore fra Bernadino da Cantalice.
Da allora la chiesa-madre fu frequentata dal mattino alla sera, specie quando si celebrava la funzione penitenziale quotidiana; grazie alle offerte spontanee o questuate, davanti al Crocifisso arsero in continuazione numerosi lumi a cera, e tanto più infieriva il morbo, tanto più il popolo affranto invocava la grazia.
Un episodio in particolare convinse la gente dell’efficacia dell’aiuto divino: il piccolo Gustavo, di 7 anni, figlio del facoltoso pigliese Demetrio De Sanctis, era ridotto dal colera in fin di vita nonostante il medico e i genitori facessero di tutto per salvarlo; e quando il dottore aveva detto che non c’era più niente da fare, i familiari aspettandone il decesso prepararono il suo funerale e chiesero ai frati di S. Giovanni di tumularlo nel sepolcro della chiesa, sigillato in una cassa come da disposizioni legali.
Ispirati intanto a ricorrere al Crocifisso, che ancora non era stato trasferito in paese, mandarono un servo con la camicia del malato che, secondo la pia tradizione, fu poggiata sull’immagine sacra e poi stesa sul giovanetto; il quale, dopo tanto tempo che quasi non dava più segni di vita, subito si scosse e iniziò a migliorare fino a guarire del tutto.
Tutti da allora lo considerarono un miracolato del Crocifisso, al cui patrocinio fu poi attribuita anche la fine dell’epidemia.
Volendo per questo degnamente e pubblicamente ringraziarlo, il popolo ne ritardò la restituzione ai frati e organizzò una questua per preparare una festa ed accompagnarlo al convento con una solenne processione, la banda musicale, spari di mortaretti ecc.
Ma quindici giorni dopo la fine del colera il Crocifisso ancora non era stato riconsegnato e i frati, desiderando di riaverlo per le feste natalizie, sollecitarono il Preposto Bonacci a riportarlo in una delle prime giornate festive.
La prima data stabilita per questo scopo venne disattesa perché la festa programmata ancora non era pronta; si rinviò il tutto al 27 dicembre e quella mattina p. Benedetto, incontrato tutto il Capitolo della Collegiata in sacrestia, chiese se per quella sera fosse confermata la processione verso il Convento.
Il canonico Bottini rispose che la grande festa voluta dal popolo era ancora in fieri e che la causa del ritardo non erano i preti: una risposta che fece saltare i nervi al frate, il quale pretese la restituzione del ‘‘sagro Pegno” quella sera: da ciò sorse tra i due sacerdoti un battibecco a base di frasi poco sacerdotali, di fronte ad alcuni laici presenti.
Si fissò come data ultimativa quella del 30 dicembre, ultima domenica dell’anno, ma anche quella volta una lettera del Priore Corbi pregava il p. Benedetto di pazientare un’altra settimana: allora la mattina dopo il p. guardiano e il p. Bernardino andarono ad Anagni dal Vescovo Trucchi il quale, sentite le loro proteste, ordinò di riferire al suo Vicario Foraneo di Piglio di riportare il Crocifisso a S. Giovanni il 1° gennaio1856.
La sera stessa il destinatario don Fantini e il p. Bernardino riferirono il volere del Vescovo all’Arciprete Bonacci e al Priore di Piglio, i quali ripeterono al frate di pazientare la settimana richiesta per non mal disporre il popolo che aveva generosamente contribuito all’organizzazione della ormai quasi pronta festa.
Il padre guardiano però non volle sentire ragioni e si ostinò, anche contro il parere di alcuni suoi frati, sulla data fissata dal Vescovo, tanto che la sera del 1° gennaio salì in paese. Per strada incontrarono un forestiero che invitò lui e i suoi confratelli a tornare indietro, perché il Crocifisso quella sera non sarebbe stato restituito: incontrarono poi un gruppo di giovinastri che li presero a parolacce: “Brutti fratacci, vi rompiamo la chierica!”.
Entrati in Collegiata, i canonici sparirono tutti e i frati si ritrovarono in mezzo alla gente innervosita e sempre più minacciosa, mentre in sacrestia il p. Guardiano si rese conto che nessuno avrebbe messo in spalla il Crocifisso, anche perché erano state nascoste le stanghe della macchina processionale e i falegnami erano stati minacciati di non rifarle.
Il crescente ronzìo di una folla sempre più numerosa e punteggiata di brutti musi, che aveva anche circondato e quasi bloccato la confraternita francescana dentro la chiesa, convinse i frati a una prudente marcia indietro, senza che il clero secolare muovesse un dito per calmare gli animi. Il giorno dopo p. Bernardino tornò a riferire al Vescovo, che prima voleva mandare le guardie a Piglio poi, per evitare ritorsioni sui frati, li invitò ad assecondare il desiderio popolare.
Insomma la processione di ritorno con festa pubblica fu decisa per il 13 gennaio, un giorno piuttosto brutto tanto che la banda non poté uscire; per questo già si parlava di un’altra settimana di rinvio, ma stavolta anche il clero secolare si oppose e così quella sera una lunghissima sfilata, dopo un mese e mezzo, finalmente riaccompagnava tra spari di archibugiate e canti devoti il Crocifisso miracoloso nella sua cappella a S. Giovanni.
Qui predicò di nuovo il p. Lettore con soddisfazione dei fedeli, si cantò il Te Deum di ringraziamento accompagnato all’organo dal Vicario Foraneo, e fu data la benedizione; tutto si svolse senza disordini e il popolo offrì al Convento alcune elemosine a beneficio dell’altare del Crocifisso.
Dal libro di “Amministrazione dell’Insigne Collegiata di S. Maria Assunta in Cielo: 25 maggio 1865 – “Per piccolo rinfresco ai PP. Zoccolanti, ai Sig.i Can.ci ed altri che si recarono ad accompagnare il SS.mo Crocifisso, trasportato dal Convento di S. Gio: Ba in …. Chiesa per ottenere la pioggia, che dopo pochi giorni ne concesse abbondantissima”.
Nel giugno 1867 venne registrata una spesa per simile iniziativa.
In una lettera che Don Ferdinando Tardiola scrisse alla madre il 24 settembre 1884, leggiamo: “Del resto ora non resta a dirti che preghi perché il Signore tenga lontano il colera.
Qui abbiamo fatto dei tridui alla Madonna delle Rose che ancora sta esposta, l’abbiamo fatto a S. Rocco, ieri terminò quello di S. Sebastiano, domani daremo principio a quello del SS. Crocefisso, e siamo certi di essere liberati.
Per ora va scemando in Italia, non essendo più fiero come sul principio. Il triduo alla Madonna si fece con discorsi, due ne feci io, uno D. Tommaso…”.
Su di un biglietto da visita del P. Pietro Calcagna O.F.M. Ministro provinciale, datato 30 maggio 1916, (Durante la guerra Mondiale) leggiamo che il P. Pietro “ossequia il R.mo Sig Preposto del Piglio Don Pio Appetecchia e gli permette di tenere il SS.mo Crocifisso nella Chiesa Collegiata fino alla domenica della SS. Trinità”.
Sfortunatamente il 12 Maggio 1944, alle ore 18,25 un violento bombardamento ha distrutto la chiesa e l’intero convento.
Anche il miracoloso Crocifisso veniva travolto fra le macerie, ma i Religiosi ne hanno raccolto i frammenti e li hanno inclusi nel nuovo, in tutto simile a quello andato distrutto.
Giorgio Alessandro Pacetti

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